QUINDICESIMO EPISODIO

Venne morso dalla malinconia, disteso, a quattro di bastoni sulla piattaforma che aveva realizzato per non dare disturbo al nuovo inquilino che cresceva nel soggiorno. Cosa avrebbe pensato un estraneo assistendo a quella scena? Sorse in lui il dubbio di essere impazzito, non poteva non pensare al volto attonito di chi poteva vederlo, di chi poteva ridere della sua miseria. Di lì in poi, la sua solitudine fu anche un segreto, era la sua esistenza solitaria, l’unica cosa che gli permetteva di dare adito ai modi di vivere più bizzarri. Una vita così solipsistica era inaccettabile in società, ma lui, slegato dal turbinio di relazioni, poteva permettersi di non essere travolto dalle leggi che queste solitamente impongono; ciò comporta, in qualche caso, di essere unici ai propri occhi, folli e dunque reietti. Questo, gli fece pensare a quel dispiacere come a qualcosa di artificiale e passeggero.

Era ormai naufragato il sogno di una vita normale, della tiepida e accogliente conferma altrui della propria felicità, era un disperato agli occhi del mondo, ma i segni di questa disperazione lo riportavano in una dimensione sognante, in qualche modo allegra.

Restava un mistero: quale ragione lo aveva portato in quel contesto privatissimo e occulto, di cui un po’ si vergognava? Lui per primo, non sapeva ancora spiegarsi quel bisogno così grottesco.

L’uomo a tutto si abitua, meno che all’inazione. Anche se viene sorpreso da questa, dopo anni di puro immobilismo, gli apparirà sempre sgradevole e faticosa come la prima la volta, non si è mai sufficientemente disgustati da ciò. La felicità è nel progetto. Per chiunque, il bene che deve venire è sempre necessario rispetto a quello che si ha. Gregorio, aveva sempre scambiato il lavoro con il sacrificio e a questo, si era assuefatto. Sopperiva alla mancanza del lavoro scomparso, coltivando l’inadeguatezza del suo vivere, spinta fuori da qualcosa in crescita, che faceva in qualche modo sperare riguardo alla venuta di qualcosa di buono. Stava proteggendo la sua oppressione, si rese subalterno.

Il dolore che investe gli uomini naturali, tra cui Gregorio, si propone a questi infinite volte, tanto da diventare peculiare caratteristica. Si ammira, di questi figuri laboriosissimi, la capacità di sopportare le grandi difficoltà con cui convivono per lungo tempo. È così per molti degli appartenenti alle classi indigenti, è un sintomo della misericordia che la vita ha per alcuni di loro. L’assuefazione a certe sofferenze, preserva dalla facilità di rammaricarsi di poco, facili a dimenticare il male e meglio disposti a godere che a soffrire. Le fatiche allora sono sopportabili, fino a quando non si guarda a queste con gli occhi altrui, occhi di uomini per così dire civili, che hanno grande compassione e celato ribrezzo per il sudore e il sacrificio, per questi la via maestra del guadagno è la scorciatoia, segno di fine astuzia e dote più riconosciuta dei nostri tempi. Gregorio, tuttavia, trovava il suo habitat naturale in questo ruolo, stare dietro le quinte, arrampicarsi e osservare da lontano lo show. Il sacrificio rende il presente fertile e il futuro più prosperoso.

Ritrovò la sua condizione, di nuovo a lavoro, di nuovo sottoposto, questa volta alla natura, non all’uomo, allungato a quattro di bastoni su una mano legnosa sbucata chissà da dove a sostenerlo, a dargli nuova linfa e sostentamento. Così vicino al soffitto, seppure restava ancora altezza, perso nel bianco ingiallito per le sigarette, Gregorio aveva intravisto il fondo di se. Avrebbe approfittato di questa battuta d’arresto del mondo, per ribaltare l’ordinario, continuando il lavoro che Madre natura aveva iniziato, avrebbe avuto ancora bisogno di lei, come staccarsene, l’aveva già lasciata andare via una volta, per cosa? Per una routine che lo aveva allontanato dal senso della vita? Aveva perso interesse in generale per le cose, risucchiato dal vortice del lavorare-mangiare-dormire-lavorare, nel tempo libero riposava o amava passeggiare per cercare poi un angolo beato, dove leggere il suo amato giornale rosa, lo slancio più folle che si concedeva era una partita a biliardo al Circolo del Mosto, dove condivideva l’amore per il vino e per l’8 nero. In fondo Gregorio, in tutta la sua vita, non aveva mai rincorso grandi cose, non tanto per mancanza di ambizione, quanto per pigrizia. Diciamo, che un po’ la vita se l’era fatta scorrere addosso, fungendo da setaccio, lasciando che le scorie restassero ben attaccate dentro di se. Questo incredibile momento di pandemia aveva minato quelle poche certezze di una vita già in bilico, ora sentiva che avrebbe potuto fare tutto, seppure il mondo avesse superato la pandemia e tutti i problemi annessi e connessi, lui, Gregorio Gaetano Quaranta, non sarebbe mai più tornato a quella farsa chiamata normalità. Gli si stava aprendo un mondo dinnanzi agli occhi persi nel soffitto, sorrideva compiaciuto, una smorfia ebete si dileguava nell’estasi dei pensieri. Stette ancora un po’, per poi alzarsi e fissare la stanza da mezz’altezza. Avrebbe continuato la sua stanza sull’albero, l’avrebbe resa comoda, confortevole, lasciando una buona porzione da utilizzare per un’amaca e una seduta bassa dove potersi godere il prezioso giardino, una volta preparato, atteso, curato, era la sua rivincita sul balcone mai avuto. Avrebbe approfittato di quella possibilità, coltivando quella terra nera, oppressa chissà per quanto tempo, quaranta o cinquant’anni, l’età del palazzo. Avrebbe però, anche continuato a cercare la radice, il suo principio, un po’ per curiosità, per sapere da dove venisse, che per far spazio nel terreno e coltivare quanto più possibile: piante, alberi da frutto, ortaggi e tutto ciò che di commestibile avrebbe potuto piantare. Lasciò le elucubrazioni, saltò giù, i piedi uniti affondarono nella loro impronta,  guardò verso la finestra, poi l’albero, “ma come fai tu a stare vivo qua dentro? A stento ce la faccio io”, esclamò come se lo vedesse per la prima volta. Era stupito, non aveva ben chiaro davvero, come quel prodigio della natura avesse preso forma e sostentamento; certo era, che nel posto preciso in cui aveva lanciato i resti del mandarino, era sbucato lui, approfittando della permanenza in cella di qualche giorno, attendeva Gregorio con tanto di saporiti frutti. “Nooo non ce credo”, disse strabuzzando gli occhi, “vuoi vedè che quello che ce butti, cresce? Non me dì, ma tu hai capito che posso fa se è davvero così ?” Fece una danza sotto l’albero, col cuore che batteva forte, se fosse stato vero, Gregorio lo avrebbe sperimentato subito, non voleva aspettare l’indomani. Corse in cucina, aprì il frigo, iniziò a spostare barattoli che nemmeno ricordava di avere, afferrò una zucchina, la tagliò in quattro segmenti pressoché identici di misura, corse dall’altra parte, inginocchiandosi come in preghiera, fece i buchi e inserì le zucchine in punti equidistanti, proprio nel terreno addossato alla parete dove era venuto fuori l’albero. Fece poi con le mani un cumulo di terra su ciascuno, così da sapere dove avesse piantato, innaffiò copiosamente e decise di andarsi a coricare, la giornata era stata bella piena e quell’attesa lo rendeva solo più felice.