DICIASSETTESIMO EPISODIO

“Ma no, riti e smancerie sono una forma di arrivismo sociale”, si salvava l’educazione, quella si, quella non l’avrebbe barattata per nulla la mondo. La radio cantava appesa, dove prima c’era un vecchio dipinto di natura morta, di quelli che si trovano nelle case delle nonne più che in una casa di un uomo ancora giovane, quel dettaglio scomparso, denotava l’inclinazione di Gregorio a non curare molto il concetto borghese o comune di casa. Era venuto giù quel quadro, in una mattina buia come tante, mentre era intento a prepararsi per il lavoro, quando c’era ancora un lavoro, sembrava trascorso un secolo, la pandemia ha stravolto il tempo, o meglio la percezione banale che l’uomo ha per viaggiare più o meno linearmente in esso. Quella cassettina a transistor era l’unica finestra sul mondo che Gregorio aveva scelto di avere, niente internet, niente Tv, ben consapevole di quanto fosse inutile è pressoché inscindibile, la valanga d’informazioni che avrebbe evitato chiudendosi in quel monastico isolamento.  Voce amica nelle notti, compagna di lavoro, di passeggiate, foriera di notizie, sin da piccolo rimase affascinato da questo mondo misterioso e poetico, fatto di etere, di silenzi profondi, di note, di voci, aveva sempre amato immaginare le partite ascoltando la radiocronaca, e le distanze poi, che si accorciano cavalcando fotoni, tutto questo da sempre, proiettava all’interno delle stanze in cui aveva vissuto, mondi che Gregorio plasmava e modellava a suo piacimento, con una visione falsata e a volte semplicemente sognatrice della vita.

Di sicuro, quel suo modo di apprendere le notizie, filtrava il terrore mediatico che nelle poche e mirate uscite fatte all’esterno, aveva avuto modo di percepire, certo, la radio anche passava molta merda, ma la rincorsa al sensazionalismo, allo scoop, all’ultima news al fulmicotone, veniva in qualche misura ridimensionata. “Paura è uguale a isolamento, borbottò saltando sull’albero con un balzo felino, “isolamento è uguale a smarrimento o elevazione, non c’è altra via di uscita, e con questa storia del Covid in molti sicuro ci marciavano, mentre i piecari cantano affacciati sul baratro di una nazione affumicata da ceneri di vecchi allori. Il tutto ben amministrato da una classe politica inetta, che, traghettati i resti di ideologie assassinate dagli stessi partiti e dalla mano di chi ha cambiato la struttura essenziale di uno Stato, come la Costituzione. In quale Paese i politici in piena emergenza mondiale, invitano le persone a uscire a fare aperitivi, mentre là nel mondo si muore per qualcosa che a stento si conosce, pipistrelli, pangolini, suocere e laboratori militari, è stato detto di tutto. Ora in radio parlano addirittura di deconfinamento, di misure, di aiuti, di cabine di plexiglas, conoscendo il genere umano, avrebbero richiuso tutto dopo poco. Ci sono voluti i militari e le forze dell’ordine per far rimanere le persone ferme nelle proprie case, redarguiti per strada come dei ragazzini, incapaci di comprendere cosa fosse giusto e cosa no”.

Era più che certo Gregorio, dopo tutto questo ragionamento a voce alta, che riti e smancerie, continuano ad essere inutili, a maggior ragione ora, che aveva oltrepassato la linea tra normale e anormale, non sarebbe ritornato a quella pantomima, un castello di sabbia che alla prima mareggiata è imploso. Economie, governi e famiglie, erano stati messi in ginocchio da qualcosa di invisibile, che svuotava le case, costringendo a sepolture solitarie e lacrime versate tra quattro mura, mettendo a nudo l’incapacità da entrambe le parti di saper gestire questa assurda, apocalittica condizione. Per fortuna ci sono gli applausi, a confermare ogni santo giorno che si è bravi nelle consuetudini e non nelle rivoluzioni.  Ci sono i discorsi a reti unificate, dove inutili parole, non aiutano chi il pane non riesce più a portarlo a casa. È questo il sogno che avevano in mente per noi i nostri padri? Di sicuro non il suo, che pur avendo scelto una vita semplice, non accettava di vivere come un abbietto.

Il germogliare del terreno suonava la stessa musica delle sue illusioni modeste e ben calibrate. Gregorio aveva raccolto di tutto dall’immondizia e ogni sacco nero era pieno di semi e ogni seme era una promessa che Gregorio gettava nel terreno.

Pian piano quel terreno baciato da Dio, visto dall’alto assomigliava a una tavolozza di un pittore nei cui colori Gregorio si perdeva prima di addormentarsi. Dopo il mandarino, le zucchine a ridosso della parete, fiorivano i mirtilli, le fragole, le mele, nessun colore tra questi era un capriccio d’artista, una moda momentanea, ma una sola tendenza, la più antica, quella dell’uomo e della terra, la cui iconografia è sempre la stessa, la frutta: viola per la memoria, rossa per il cuore, verde per le ossa, su quella terra di quel colore nero che non è nessun colore, se non la tela di quel dipinto germogliato.

Sotto quel silenzio infinito della terra, in cui tutte le cose si elevano e si abbandonano, vi era racchiuso il primo mistero del mondo e ovviamente il primo bisogno di fede, di speranza, rivolta a quell’inflessibile giudice che è la terra, che non rivela mai i motivi dei suoi giudizi, e poi c’erano gli uomini come Gregorio che se benedetti da questa, si allungavano sulla propria benedizione col mento rivolto al cielo.

La terra di sotto era come acqua, Gregorio vi tendeva il braccio, disteso sulla piattaforma in legno che aveva creato, su quelle piante che man mano si alzavano sempre più verso di lui, come fosse su di un peschereccio in mare aperto, il cui blu profondo nasconde alla vista le creature che lo abitano.

Ricordò suo nonno, uno di quegli uomini deviati in gran parte dalla propaganda ridicola del Duce, ed una frase in particolare che ripeteva continuamente: “l’ordine è la capacità di tenere ogni cosa al suo posto e di fare ogni cosa al suo tempo”, gli venne in mente proprio in quel momento, poiché tutto lì dentro sembrava smentire quell’olimpico principio, in cui la realizzazione sembrava essere in conflitto solo con la buona volontà.  

Ogni cosa al suo posto, un appartamento non era certo il posto adatto per coltivare, ogni cosa al suo tempo, quei frutti crescevano più veloci di una pagnotta nel forno che neanche una squadra di operai cinesi con tre figli a carico riuscirebbe a fare di meglio. Qual è allora il posto delle cose e quale invece il loro tempo? Avrebbe atteso pazientemente, col ritmo scandito da quella terra, che in quel momento così assurdo per tutti, cercava forse un disperato ultimo contatto con l’uomo: Gregorio. Così aveva iniziata a vederla questa storia, o almeno aveva voluto leggere in questo accadimento piuttosto bizzarro. S’era anche chiesto, se fosse uscito di senno, preoccupato, aveva subito dato sforzo di lucidità, ripetendo le formazioni delle squadre del campionato e all’ultimo nome aveva esclamato: “col cazzo che so pazzo”. Ma il problema che ignorava, è che un pazzo non s’accorge d’essere pazzo, un pazzo non direbbe mai ciao sono un pazzo, un po’ come un poeta, sono gli altri che lo dicono, gli altri, quelli della sponda della normalità, la maggioranza, il numero, che genera appartenenza e discriminazione. Ma Gregorio Quaranta non era pazzo, anzi, aveva colto quell’occasione, come una primavera per la sua grigia esistenza, aveva ritrovato il pensare, il sognare, l’emozionarsi per un ortaggio, o un frutto spuntato in una sola notte, quell’orto non dava solo sostentamento ad un uomo, ma gli trasmetteva una nuova linfa. E Greg, la cavalcava con ingegno, aveva tagliato la parete attrezzata che era parcheggiata in cucina, ne aveva ricavato dei cubi, che aveva sparso sulle pareti, li utilizzava come punti di raccolta di oggetti utili, con il resto del legno aveva fatto delle passerelle, le aveva appoggiate sui cubi stessi, da avere così un percorso e dello spazio per passeggiare, aveva messo un travetto che correva parallelo al battiscopa, un altro al bordo della parete col soffitto, poi, tese dei fili tra i due,  in modo da far arrampicare lungo la parete le disordinate piante di zucchine. Nella nuova geografia della stanza, Greg, aveva iniziato ad orientarsi dando nomi come: la costa delle zucchine, la falesia dei mirtilli, il mar nero, la cucina era la terra ferma, il mandarino con la palafitta invece, il suo vascello, con cui cabotava la quarantena verso rotte umane ignote.