VENTIQUATTRESIMO EPISODIO

Stette sulla soglia, la mascherina sotto al mento, approfittava per respirare a pieni polmoni, un palombaro in preparazione. Il sole cadeva sul viso in un bagno di luce, sembrava trasfigurarsi e quasi non voleva saperne di procedere con il primo passo oltre il portone. Qualche istante ancora e si mosse in direzione della fermata, svoltò al chiosco dei giornali e notò che nel quartiere, la vita sembrava ritornata alla normalità, il Covid 19 sembrava scomparso, volatilizzato, mai esistito. C’era chi indossava la mascherina e chi no, si sentì come uscito da una parentesi tra il prima e il dopo, il lavoro dell’ultimo periodo, lo scavo, lo avevano ulteriormente estraniato. Era consapevole che il deconfinamento, avrebbe portato ad uno scatafascio generale, ma non immaginava una tale avventatezza già da subito, “non a capisco sta smania quando si tratta di salute, ma che il fatto nun è il loro? Questi se capitavano ai tempi di Anna Frank se sparavano, altro che diario”, passeggiava rifletteva e borbottava, scansando buche, merde e passanti, preoccupato del fatto che ancora di più si sarebbe sentito solo, rispetto ad un sentire e agire di massa, in cui non si riconosceva. Lanciarsi così nella vita, non vuol dire amare la vita, ma non essere pronti a viverla in profondità. “Forse il pazzo che la vede male è questo contadino da salotto dagli amici invisibili e un pappagallo”. La fermata dell’ATAC pareva congelata nel tempo, senza una pensilina, solo un vecchio palo con l’insegna a tabella, dentro, una vecchia pubblicità d’audizione per un reality, mentre gli orari della linea erano su un foglio messo in un pannellino poco più grande della cornetta di un citofono, “ma come è possibile che nel 2020 esistano ancora ste cose? È na mortificazione!”Qualcuno aveva raccattato dal pattume delle sedie mezze sgangherate, ma ancora reggevano, l’aveva sistemate a ridosso del muro, proprio dietro al palo giallo smozzicato dalla ruggine, una tettoia improvvisata con la lamiera era attaccata al muro con pezzi di legno, un lavoro ben fatto, per offrire riparo nei giorni di pioggia. “Puro neo realismo. Bello, ma pericoloso. Noi italiani c’o dovremmo sapè bene, che quanno allo Stato se sostituisce quarcuno, se finisce ad avercelo dentro casa, camorra, mafia, ndrangheta, così hanno fatto sempre!” Arrivò un bus, la gente ci si fiondò sopra come se dovesse essere l’ultimo mai annunciato. Una signora con la spesa, pareva non appartenesse a quella scena, seduta com’era su una sedia damascata dallo schienale alto e profilato, Gregorio la guardò, lei sorrise con gli occhi e disse: « Chi mo o’doveva dì  che dopo a’ poliomelite, l’asiatica, l’influenza di Hong Kong, a’ Suina, l’Aidse, dovevo vedè pure questa, sto Covid-19. Come dimenticare la miseria della guerra, le lotte di mio padre e quelle di mia madre come partigiani, mia mamma sempre attenta ad ogni nostro respiro, il fascino della scuola, era come un sogno poterci andare, una gioia, un onore. La maestra era una seconda mamma e conquistare un bel voto era festa per tutta la casa.  Che tempi. Ottantacinque anni so’tanti bello mio». Gregorio la guardò annuendo commosso, senza dire parola, pensava a sua nonna, lei riprese: «prima del Coronavirus c’era un’altra cosa più grave, l’assenza di rispetto per il prossimo, l’incoscienza più totale, l’indifferenza. Forse i giovani dovrebbero leggere un po’ di più e scriversi meno addosso, anche perché noi, i vecchi, quelli chiamati con un numeretto, dobbiamo stà bboni e nun da fastidio, dobbiamo aspettà, nun ce resta altro da fà. Caro mio, tu sei giovane, nun poi capì come ce se sente nel vedere quanti sono scomparsi in silenzio, soli negli ospizi, pe mano di stò virus che ce stà a levà l’aria. Sono sola e presto o tardi forse farò la stessa fine. E c’è chi ha il coraggio di dire che il Covid è come una normale influenza, ma fateme er piacere». Arrivò il 115, la signora rimase lì come un oracolo, chissà se davvero aspettasse un mezzo, Gregorio la salutò con la mano e salì, prese posto in fondo, non c’erano molte persone, le poche, non avevano la maschera, scelse un posto vicino al finestrino, il più lontano da loro. Gli girava in testa ancora la voce della signora, l’indifferenza, la solitudine, parole che tutte insieme esprimono silenzio, mentre una goccia rivolava in diagonale il vetro, la strada verso Trastevere, scivolava in un chiacchiericcio  sommesso. Fece il cambio, prese il tram, poi il 75, iniziò ad attraversare quella parte di territorio sub-urbano, costeggiato dai grandi pini ai bordi della strada, case povere, abusive, capanne e pattume, poi la parte nuova, Ostia nuova, che di nuovo non ha proprio niente, edilizia da palazzinari, quella che fino a poco tempo prima aveva costruito pure lui, qualche edificio più felice rimandava comunque ad una edilizia anni cinquanta. Nulla era cambiato, era rimasto territorio di nessuno, un ufficio della posta, un supermercato, qualche attività, ma intorno regnava il degrado più totale. Raggiunse il capolinea, da lì avrebbe proseguito a piedi per circa dieci minuti fino a casa dell’amico, era molto tempo che mancava, sembrava tutto spettralmente  rimasto congelato, un paese fantasma. Una zona giochi sulla spiaggia, da altalene arrugginite e vuote, sedie di plastica senza piedi e sparse capovolte sulla sabbia. Tutto respirava di surrealismo, solo la voce del mare riportava ad una connessione con la realtà. Scostò la mascherina respirando a pieno lo iodio, il mare era sempre bello, dava pace, allargava gli orizzonti. Qui le linee di confine sono confuse, l’asfalto si confonde con la sabbia, anche la legalità è confusa, barattata a volte per un pezzo di terra su cui stare. Qualche pescatore solitario occupava uno scoglio con l’attrezzatura, qualche randagio pizzicava coi gabbiani dal pattume sparso, altri stavano appollaiati su una vecchia barca ad osservare il mare. Tutto era rattoppato, le case, il bar sulla spiaggia, le auto e pure il cielo con le sue nuvole. Superati i cantieri navali dai vascelli come cattedrali vuote, prese Via dell’Idroscalo, una strada lunga e stretta, costeggiata da capannoni, piccole industrie e qualche casetta estiva. Arrivò il parco, si fermò al cancello chiuso, strinse tra i pugni le inferriate, lo sguardo cadeva sul  triste monumento al centro del vialetto, era sempre passato a dare un saluto, quando aveva potuto era arrivato con dei fiori, rose rosse, rigorosamente, segno di amore e di passione, come quella che aveva patito il 2 novembre del 1975 Pier Paolo Pasolini, ucciso lì all’idroscalo, in una periferia squallida e omertosa, da persone che l’hanno fatta franca. Riprese il cammino verso casa der Metallaro, mancava poco, ne intravedeva il cancello, gli ultimi metri li fece con un cane nero a seguito, suonò, mise una mano in tasca a controllare il reperto e attese. Matteo apparve direttamente in giardino, seguito da cani, gatti e una gallina. « A’ Gregoooò», disse allargando le braccia, «che piacere me dai stanno qua», esclamò  aprendo il cancelletto giallo, «pure io so’contento de vederte Mattè, come stai?»

«Tu come me vedi?»

«Te vedo bene, alla grande direi, sempre un gran figlio de mignotta me pare»

I due risero percorrendo il vialetto fino all’abitazione.

«Oh ma hai aggiustato tutto qui, piano piano te sei fatto na bella situazione»

«Da quanto tempo mancavi Gregò?»

«So’ più o meno due anni che nun ce vedevamo qua da te, ce semo visti sempre a Roma le ultime volte»

«Accomodati ma nun fa entrà gli animali, devono restà in giardino, sennò poi s’abituano»

«Te lo prendi un caffè, l’ho appena fatto, mentre t’aspettavo me volevo fumà na paglia sul terrazzo, mò c’annamo ‘nsieme, te va?»

«Ce stà bisogno che mo o chiedi? Nnamo va!»

La terrazza aveva davvero una bella vista sul mare, Matteo aveva sistemato davvero bene la piccola proprietà comprata negli anni novanta.
I due amici rimasero ore a chiacchierare, ne avevano di cose da raccontarsi, Gregorio ascoltò Matteo, poi toccò a lui raccontare, e lì Matteo strabuzzò gli occhi nell’ascoltare l’avventura capitata nella quarantena, poi Gregorio arrivò alla storia del ritrovamento e cacciò dalla tasca del giubbino la scatola con le monete, s’accostarono al tavolo della terrazza, cadde il silenzio della scoperta, posò la scatola sul tavolo della terrazza, l’aprì delicato e uscì il contenuto per mostrarlo all’amico, sistemò le monete in fila distanziandole l’une dalle altre. Matteo curioso già si era scrutava alcuni pezzi, tirò fuori dal taschino della camicia una piccola lente d’ingrandimento e si tuffò a catturare particolari. Gregorio sparse  l’intero bottino in maniera ordinata.

«Gregorio mio bello, ma tu hai capito che t’è capitato?»
«No, perciò so venuto da te, voglio capì se so’ patacche»
«Ma che patacche e patacche amico mio tu hai svoltato»
«Ma che stai a dì Mattè, fa che sto virus t’ha scimunito?»
«Lascia perde queste qua che hai messo a sinistra, queste pure so interessanti, ma questa Gregò» e prese dal tavolo la moneta meno nera e più grande, l’unica diversa dalle altre.
«Solo questa Gregò le batte tutte, io pure nun ce credo ancora, infatti mo ritorniamo giù che ho bisogno di luce e di alcuni libri da consultà».

Raccolsero tutti i pezzi e scesero per trovare sistemazione migliore intorno al tavolo della cucina. Matteo tirò dalla libreria due volumi in pelle, li mise con la  lente sul tavolo, risistemarono le monete, apparivano ancora più belle sotto la luce calda e perpendicolare del lume al soffitto. Gregorio frenava le domande, per non distrarre l’amico dalla ricerca tra le pagine del catalogo numismatico.