Calcio, ultras e psicoanalisi

La parola “tifo”, dal greco « typhos »,  indica una specie di fumo-vapore, una febbre che offusca la mente, ed è con lo stesso termine che si indica sia la malattia infettiva, che il sostegno dell’appassionato sportivo verso la squadra del cuore. Come e quando si è passati dall’originario significato a quello calcistico?   Pare che il termine si sia imposto, nel vocabolario sportivo, sul finire degli anni venti, cioè dopo la prima guerra mondiale, proprio per rilevare il picco delle febbri sportive che esplodono negli stadi, così come esplode periodicamente la febbre tifoide. E l’Italia di allora conosceva anche troppo bene la malattia endemica del tifo e i suoi effetti di alterazioni mentali episodiche.

Il fermento e l’entusiasmo che invase i supporter del calcio italiano nel periodo del dopoguerra, non aveva mai avuto prima tanta intensità. La sorprendente propagazione del fenomeno in tutta la penisola, simile al diffondersi di un’epidemia, giustifica la connotazione di “contagio” che la malattia del “tifo” evoca.  Prima che il termine entrasse nei dizionari e nelle enciclopedie italiane, furono i giornalisti a farlo apparire sotto le loro penne, dapprima tra virgolette, poi in modo sempre più franco e deciso, finché l’uso popolare non  se ne è appropriato.
Il giornalista sportivo Giovanni Dovara scriveva nel 1923 su “Il Calcio di Genova” in merito al tifo: “ Non è fortunatamente la terribile malattia infettiva di cui vogliamo parlare ma, come ognuno comprende, la malattia sportiva, onde più o meno sono infetti in questa stagione gli appassionati del Giuoco del Calcio. Fenomeno di passione acuta a tal punto da rivestire e da assumere, in certi casi e in certe persone, i fenomeni più strani, più patologici. Ognuno di noi ha intorno a sé, quando noi stessi non ne siamo già preda, una schiera di amici, di conoscenti, trasformati, irriconoscibili.”
Fin dall’inizio il fenomeno delle tifoserie fu caratterizzato da episodi di violenza.  Tuttavia il movimento di alcuni gruppi di tifosi Ultrà, che rappresenta oggi un’emergenza sociale e politica, sorse in Italia alla fine degli anni sessanta ispirandosi al fenomeno anglosassone degli hooligan. Questi ultimi, esaltando il credo di  “sangue, sudore e birra”, innalzarono il livello di aggressività e paura fuori e dentro gli stadi con devastazioni e scontri che poco hanno a che fare con le competizioni sportive.  Richiamandosi agli stessi “valori” degli hooligan britannici anche gli ultrà italiani si organizzarono in gruppi militanti nelle tifoserie calcistiche, votati alla realizzazione di azioni “punitive” contro gli  avversari, più che al sostegno della propria squadra.
Quali meccanismi psichici si realizzano in questi fenomeni che attraversano vari strati sociali e culturali e alimentano le famigerate battaglie delle curve negli stadi?  Ci siamo a volte imbattuti in uno di questi gruppi scatenati che attraversano la città prima di una partita urlando slogan minacciosi o inneggiando ai loro eroi. Oltre all’effetto impressionante che il passante ne riceve, ciò che salta agli occhi è l’uniformità dei personaggi, che addobbati con le stesse insegne (sciarpe, cappelli, colori ecc…) mimano gli stessi gesti e gridano le stesse formule. Uniformità, simbiosi con i pari e sottomissione a un capo, sono solitamente gli ingredienti delle identificazioni dei giovani e degli adolescenti in cerca di riconoscimento e di appartenenza a un gruppo costituito. Ma sono anche gli ingredienti di raduni di folle di triste memoria storica.  Si coglie in questi raggruppamenti il bisogno di sostenere ciecamente qualcosa, insieme ad altri e contro qualcuno.  Nel 1921 Freud aveva scritto un testo molto interessante : “Psicologie delle masse e analisi dell’io”  in cui studiava i meccanismi mentali di un soggetto all’interno di un gruppo sociale. In questo testo il padre della psicoanalisi parlava di una relazione ipnotica del singolo nei confronti del gruppo.  Il rischio di questi fenomeni è quello di una forma di suggestione che toglie al soggetto ogni capacità di giudizio individuale, di attività pensante, per favorire l’adesione cieca, il conformismo, l’adeguamento al pensiero unico: quello del gruppo di appartenenza. Il guadagno che se ne ricava è una forma di identità prêt-à-porter, una sensazione euforica di sicurezza, l’idea di un godimento totale e raggiungibile, e soprattutto la riduzione del sentimento di angoscia esistenziale che sempre comporta l’esercizio del pensiero individuale.
Gli anni in cui Freud scriveva il suo saggio sulla psicologia delle masse sono quelli della salita al potere del nazismo in Germania e del fascismo in Italia. Erano anni di gravi crisi economiche che da sempre, è risaputo, sono il terreno fertile per il sorgere delle dittature.
Così Freud fu un osservatore diretto del fascino ipnotizzatore del capo che promette la risoluzione di tutti i problemi e infonde l’illusione di grande potere nell’individuo che aderisce al suo progetto.
Ci sembra di poter rintracciare alcuni elementi dello stesso meccanismo anche “nell’ultrà” violento che inquina il tifo calcistico. Freud notava che la massa è impulsiva, mutevole e irritabile, essa è governata da impulsi imperiosi che travalicano anche l’interesse personale, persino quello dell’autoconservazione. Inoltre, la massa non tollera nessun indugio, vuole tutto e subito, e l’individuo, protetto dalla massa, si sente invincibile poiché svanisce per lui il concetto dell’impossibile.
Per questo vediamo, nei documenti televisivi, gli “ultrà” sfidare le forze dell’ordine, assalire anche i poliziotti, distruggere transenne e barriere.  Un autore a cui lo stesso Freud si riferisce, Gustave le Bon, descrive con precisione quello che accade in questi contesti: “ (l’individuo) non è più consapevole di quello che fa. In lui come nell’ipnotizzato, alcune facoltà possono essere spinte a un grado di estrema esaltazione, mentre altre sono distrutte. L’influenza della suggestione lo indurrà con irresistibile impeto a compiere certi atti. E l’impeto risulterà ancora più irresistibile (…) perché la suggestione essendo identica per tuti gli individui, aumenta enormemente poiché viene reciprocamente esercitata” . Ci pare di capire che nei momenti di euforia distruttiva qualcosa di inarrestabile si mette in moto, una pulsione cieca che vuole solo soddisfazione.  Lo vediamo in tutti i gruppi estremisti, dove il fanatismo supera l’intendimento individuale.  In questi casi il calcio è solo un pretesto e qualsiasi elemento con valore catalizzante di adesione può funzionare per attirare la formazione di gruppi violenti. Il pretesto può essere politico, etnico, religioso, e l’attualità ce ne mostra anche troppi esempi.  Quello che rattrista delle tifoserie violente del mondo calcistico, è che proprio lo sport sia strumentalizzato: il gioco, la festa, diventano leve di aggressività e di distruzione.  A molti un dubbio, neppure celato, si è da tempo affacciato: una nostra certa  politica, intrecciata alle vicende calcistiche non ha forse interesse a fomentare le tensioni e i conflitti attorno a qualcosa di apparentemente innocuo come un gioco sportivo? Del resto, da sempre i governanti conoscono l’adagio degli antichi romani: “panem et circenses”, che significa che bisogna dare al popolo “cibo e giochi nel circo”, per tenerlo “buono” e per convogliare i peggiori istinti e sentimenti lontano dai governanti. Gli spettatori sfogando le loro frustrazioni a favore o contro i duellanti, rivolgevano tutta la loro rabbia verso l’arena e evitavano così le ribellioni contro il potere dell’imperatore.
Tutto l’investimento energetico e pulsionale convogliato negli scontri da stadio, sembra voler saturare un malessere ben più grande di quello generato dal gioco delle squadre, dalle vittorie o dalle sconfitte del pallone.  Come tutti i fenomeni di fanatismo anche quello degli Ultras, non fa che denunciare l’intensità del malessere sociale, e dimostra quanto sia potente la forza della pulsione aggressiva quando l’angoscia di vivere trova solo nella distruzione la sua soluzione.