A mente, Serena

 

Ci sono dei destini, per lo più di donne, che non si lasciano tracciare, definire attraverso un solo quadro di riferimento. Non esistono in tali destini separazioni di carriera, tra pubblico e privato, com’è il caso dei commedianti che vivono la vita come un’infinita tournée. Serena Rispoli, palermitana, non è soltanto attrice, cantante, docente, critica teatrale, traduttrice, organizzatrice di spettacoli in bilico tra Italia e Francia, perché è anche tutto questo se si prendono in considerazione altre mille attività di cui forse la maggiore testimonianza è data dalla casa, nel quartiere Gare du Nord, in cui abita  insieme alla figlia Bianca e al più piccolo Emilio; è una sorta di laboratorio permanente di idee, labirinto con passaggi attraverso libri in ogni dove,  locandine di spettacoli e mostre, pupi siciliani e abiti di scena. Ci sono dei talenti che naturalmente si sposano con un’arte della modestia, autentica, e che correrebbero il rischio di non essere riconosciuti se non vi fosse una storia a fare da memoria, giornale di viaggio in questo tipo di destino. La incontriamo alla Tour de Babel felici di condividere con i lettori di Focus-In la sua storia.

 

Sono un’”emigrante”, venuta nel 1993, in una Francia molto diversa da quella di ora, e partita qualche ora prima che Berlusconi scendesse in campo, insomma me la sono proprio “scapuliata” come si dice in palermitano, mentre in Francia c’era Mitterand, insomma un’altra epoca. Avevo fatto le superiori a Palermo prima di entrare al DAMS di Bologna dove ho avuto come maestro, non solo di teatro ma anche di vita, Giuliano Scabia. La Palermo dove avevo vissuto fino ad allora era molto diversa da quella che  sarebbe diventata con la “primavera” palermitana negli anni ’90, o da quella di oggi. Era una città molto chiusa, gli anni Ottanta erano dominati da un clima pesante e noi ragazzi si rimaneva fuori massimo fino alle otto di sera, un vero coprifuoco se ci ripenso, e se si usciva lo si faceva in macchina per andare a casa di amici o in qualche locale, non certo per passeggiare in città. Per farti un esempio, rispetto a Napoli che pure ci sembrava una città violenta però estroversa, a Palermo era come se tutto fosse interiorizzato, sotterraneo, e per certi versi è un po’ nella sua natura di città esoterica, magica, un po’ come Torino. L’arrivo a Bologna, alla fine dell’85, è stato come un’apertura solare, vero contraltare rispetto a Palermo, per la gioia, la follia, il fermento artistico che qui si poteva respirare.

 

Dopo l’incontro con i maestri, a Bologna, da dov’è nato il desiderio di trasferirti a Parigi?
Sono sempre stata affascinata dalla Francia, dalla sua lingua, dalla sua letteratura, dal suo cinema. E sicuramente al DAMS, insegnati come Claudio Meldolesi, Fabrizio Cruciani, Franco Ruffini, che nei loro corsi attingevano alla cultura francese, o  Antonio Costa che insegnava cinema e che era impregnato della Nouvelle Vague, hanno contribuito a rafforzare il mio interesse. Ma a Bologna, fondamentale è stata anche la collaborazione con gruppi italiani, come i Fiat Teatro Settimo e stranieri, come il gruppo polacco Osmego Dna. In Francia ci arrivo via Belgio però e non tanto per il teatro ma per il canto. C’era un festival a Liegi, La voix des femmes, e proprio frequentando gli stage che era possibile seguire lì ho incontrato una cantante curda Shaala Alam, che mi ha invitato a studiare con  lei a Parigi. Non appena in città la prima meta è stata la Cartoucherie dove Ariane Mnouchkine con il Théâtre du Soleil portava in scena La Ville parjure, ou le réveil des Érinyes in collaborazione con Hélène Cixous  e in cui raccontava lo scandalo del sangue contaminato in quella terribile epoca dominata dall’Aids. Per noi teatranti quello era un luogo sacro, un tempio e sempre alla Cartoucherie era appena nata ARTA, Association de Recherche des Traditions de l’Acteur,  dove ho proseguito il mio percorso artistico, lavorando con maestre e maestri venuti dal mondo intero. Non ho mai interrotto i rapporti con l’italia, in cui ho sempre continuato a lavorare. Mantenere un ponte tra Italia e Francia è un aspetto molto importante della mia dimansione affettiva, artistica e professionale.

 

In quale quartiere abitavi?

La prima casa in rue des Pyrénées vicino a Place Gambetta, una casa immensa in subaffitto, praticamente la più grande, e l’unica infedeltà alla rive droite è stata quando ho abitato a Glacière nel tredicesimo, altrimenti ho sempre vissuto da questa parte della Senna. Quando vado in Rive Gauche è per me come se andassi all’estero. La rive droite è più densa, brulicante, non ci sono gli spazi aperti della rive gauche, ma perché siete più pochi. Adesso abito nel cuore della Gare du Nord, a un passo dal Théâtre des Bouffes du Nord, di Peter Brook, in assoluto il mio mito e forse la ragione per cui me ne sono venuta qui a Parigi. Frequentavo gli attori della sua compagnia e quando nel 1997 portai in scena Many moons, voyage autour des mille et une nuits, è stato uno dei suoi attori, Sotigui Kouyaté a farmi la regia dello spettacolo. Negli anni, altri incontri hanno influito in maniera determinante: Joël Pommerat per esempio, che ha molto influenzato il mio modo di concepire il lavoro teatrale  soprattutto dal punto di vista dell’approccio attoriale.

 

I tuoi come vivevano questa tua scelta di trasferirti in Francia?

I miei, in effetti mi aiutarono, dico mia madre che mi è sempre stata vicina nella mia vocazione artistica, e comunque visto che non ero da sola qui, perché anche mio fratello si era trasferito a Parigi, la cosa probabilmente la faceva stare più serena. Cosa fa mio fratello? Lavora nella televisione e pensa che da qualche anno abitiamo nello stesso condominio.  Poi quando sono nati prima Bianca e poi Emilio era ancora più chiaro che ormai la mia vita era qui. Proprio tu mi avevi detto che Kafka aveva scritto che “la patria è la terra in cui si diventa padri”, e madri, aggiungo io, e trovo questa formula felice perché è proprio così. Il papà dei miei ragazzi, il primo grande amore, l’ho incontrato al Vieux Paris, un caffè in rue de la Verrerie che era una vera e propria istituzione nella città. Era tenuto da due vecchietti, lei Madame Françoise, assolutamente di destra, con giudizi che potevano essere sprezzanti ma in assoluta contraddizione con una pratica in realtà accogliente di tutta quell’umanità varia che sbarcava in questo bistrot in cui si cantava grazie a degli spartiti distribuiti in sala, « A Joinville-le-Pont»,« Nini peau d’chien», « le Galérien », « Viens Poupoule », una vera atmosfera parisienne,  un po’ d’altri tempi.

 

Quali sono gli spettacoli che ti rappresentano di più?

“Rosa Rosa”, canzoni e testi per raccontare Rosa Balistreri spettacolo musicale creato nel 2005 con la regia di Joëlle Vautier. È  uno spettacolo a cui sono particolarmente legata, che ha visto la luce quasi insieme al mio secondo figlio. Mi accompagnava in scena Lorenzo Colella, grandissimo chitarrista, purtroppo venuto a mancare qualche anno dopo, molto giovane. I suoi arrangiamenti dei canti siciliani, raffinati e profondamete rispettosi dell’anima della musica tradizionale, restano per me indimenticabili. La figura di Rosa incarna un’idea di Sicilia che amo, forte e combattiva, una donna che, a dispetto delle sue origini estremamente umili e di una vita particolarmente dura riesce a imporsi come una delle più grandi voci della musica tradizionale italiana, un’icona per chi, come lei, lotta contro le ingiustizie sociali. di grande attualità Più recentemente “Un  errore umano”, di Gigi Borruso, mi ha dato la possibilità di confrontarmi con il personaggio di Lia Burgio, un bel ruolo di donna che nella sua fragilità trova tutta la forza per ribellarsi contro la mentalità mafiosa. Entrambi gli spettacoli sono stati presentati anche a Parigi.  Sicuramente però lo spettacolo che più conta per me, è quello che verrà, perché è futuro e presente insieme. In questo momento sto lavorando con Mariella Fabbris, che ho ritrovato dopo anni, ad un prossimo progetto teatrale tra Parigi e Torino. Ancora un ponte tra i miei due paesi.

A Parigi hai un’intensa attività di laboratori teatrali con i ragazzi e con gli adulti. Ce lo puoi raccontare?

Negli anni l’attività pedagogica è aumentata anno dopo anno, sia nelle scuole che in altri contesti e i laboratori sono per me occasione di crescita e di vero e proprio nutrimento creativo per il lavoro in scena al punto da diventare imprescindibile. Tra i progetti in cantiere c’è per esempio un laboratorio nelle carceri che mi sta molto a cuore.

 

Gli italiani a Parigi, i tuoi italiani?

All’inizio non frequentavo molti italiani, a parte il mio amico storico Marco Consolini, che adesso insegna all’università, e poi è stato un crescendo, soprattutto negli ultimi anni grazie agli incontri che ho avuto da quando ho cominciato a collaborare con Focus-in, ma anche perché la comunità italiana è aumentata esponenzialmente in questi anni, qualcuno diceva ai livelli della grande vague emigratoria del dopoguerra. Certo un altro tipo di emigrazione, però fatto sta che ormai i miei migliori amici e amiche sono italiani. Un contributo importante in questo è venuto anche dalle scuole, sezione italiana, frequentate dai miei figli e che mi hanno fatto conoscere persone meravigliose di ogni angolo d’Italia e più o meno della stessa mia generazione. Con i ragazzi si vive una storia che è fatta sicuramente di radici, di storia, origine, passato, Bianca per esempio ha un accento siciliano più forte del mio, ma anche di ali, una storia che parla due lingue, anzi almeno tre, e questa è la città dove volare è possibile, magari per scoprire altri paesi, come mia figlia Bianca che l’anno prossimo andrà a studiare in Canada.