Di chi sono le case vuote?

Il design come suggerimento della forma della vita

di Arianna Caringi

Ettore Sottsass nasce nel 1917 a Innsbruck da madre austriaca e padre italiano. Seguendo le ispirazioni e le tribolazioni paterne, studia architettura al Politecnico di Torino. Al termine del suo percorso universitario, lo scroscio della Seconda Guerra mondiale lo travolge e il giovane Ettore si arruola volontariamente nella Divisione Monterosa, costituita da Mussolini e dai dirigenti della Repubblica Sociale Italiana. Alla fine del conflitto inizia a collaborare con il padre a diversi progetti di ricostruzione del paese, contribuendo parallelamente alla rivista Domus, fondata da Gio Ponti. Irrequieto e curioso, lascia l’Italia nel 1956 e, arrivato a New York, inizia a lavorare per l’agenzia di George Nelson, massimo esponente del modernismo americano. In America Sottsass si avvicina al design di tipo industriale, scopre la Pop Art e il modello americano della “società di consumo”. Sarà un periodo assolutamente decisivo per tutta la costruzione del suo pensiero e della sua ispirazione progettuale e artistica. Andrà così formandosi dentro di lui l’idea di un design che è attività e ricerca intellettuale. Un processo esistenziale ed organico rispetto all’ambiente circostante, attraverso cui vengono create, non per forza all’interno di processi industriale, “forme” o “figure”, oggetti che “hanno da essere strumenti per la sopravvivenza e rifiorire della gente, strumenti per provocare una permanente consapevolezza esistenziale.”

Come pensare la vita 

Come dare allora forma alla vita e trasferire il processo del pensiero nelle cose? Si scopre così che è la vita ad ispirarci la forma della vita stessa. L’espressione delle stanze più recondite della persona, la materializzazione in “oggetto” dell’esperienza dello spirito e del corpo, di una rimembranza divenuta inconscia, viene a manifestarsi sotto la forma non solo di “gesto artistico”, di arte, ma di materializzazione di intenti fisici ed utilizzabili dalla vita, che la vita di tutti noi può utilizzare. Il nostro ambiente, la casa, la strada e gli elementi che le compongono, sono frammenti di esistenza a cui aggrapparsi per potersi riconoscere, potersi dire: questo sono io. Una serie di fattori artistici, storici e sociali mi stanno ridando indietro chi sono tramite questo oggetto, e sta alla mia sensibilità riconoscerlo, sceglierlo tra tanti. Scegliermi. 

Gli oggetti dell’esistenza

Un oggetto contiene in sé il suo scopo di utilizzo, un utilizzo quotidiano, distratto, inconsapevole e radicato nella coscienza di ciascuno. “Se dovevo essere un designer, mi sembrava giusto disegnare poltrone e anche divani (per salotti e conversazioni), tavoli da pranzo (per sale da pranzo e cene di compleanno in abito da sera) o forse sedie (per giardini e cocktail parties all’aria aperta).” Disegnare uno di questi strumenti della vita diventa per Sottsass un evento etico e politico. Etico perché favorisce l’introspezione, costringe al confronto con sé stessi, con la storia, con “la condizione antropologia della tribù, piccola o grande, a cui appartieni.” Politico perché richiede una certa consapevolezza rispetto a quello che succede nella società. Disegnare vuol dire quindi essere in grado di “dare una immagine (o perlomeno sapere che il tuo problema è quello di dare una immagine) all’ambiente, un’immagine ai movimenti della storia”. Questo era il proposito cardine intorno al quale si costruivano le basi del design italiano degli anni Trenta, un design considerato come un modo per “discutere la vita”, perché ad essa profondamento legato. Al tempo, in Italia, le poche industrie presenti si occupavano principalmente di rispondere ai bisogni dello Stato, mentre i beni della vita privata, della casa e dell’intimità, erano ancora riservati ad un modello di concezione e produzione artigianale: “L’oggetto, il prodotto di quel tipo di artigianato legato a una molto antica tradizione, non era soltanto utile e pratico nel senso comune della parola. Doveva anche illuminare la vita di ognuno, essere compagno, diventare lo strumento dei vari rituali della vita, sostenere la vita, diventare una specie di promemoria dei molti e diversi appuntamenti nel corso dell’esistenza.”

Lo spazio come teatro

Le cose diventano allora, in questa concezione e nella vita quotidiana del popolo italiano, una sorta di “oggetti di scena”: Sottsass credeva appunto che gli italiani pensassero la vita coma a uno spettacolo, “uno spettacolo improvvisato, una tragedia, un dramma o una commedia sulla scena.” Nel testo chiamato La cucina, vediamo la descrizione di questa particolare stanza come un ambiente/ricettacolo delle mille forme della vita, palcoscenico di un rituale a tutti conosciuto, un “luogo protetto”, una “piazza di incontri”, un “teatro completo dove finivano per recitare, intorno alla tavola fumante, tutti i possibili personaggi con tutte le loro e le altre storie vitali e mortali.” Il testo La luce del sole racconta invece della crudeltà che il sole può esercitare in quei luoghi senza riparo alcuno, come le zone desertiche del mondo. In questi posti lo spazio architettonico diventa fuga e nascondiglio. Lì, “aprire la porta vuol dire far esplodere una improvvisa bomba di luce dentro alla stanza”, vuol dire vedere e vedersi, in un nuovo, rinnovato palcoscenico. L’architettura, fungendo da contrappeso attraverso la creazione d’ombra, d’oscurità, dà alle tenebre uno spessore pesante, un segno quasi metafisico. Lo spazio diventa una “scenografia disegnata per angosciose recite sacre.” Per fare ordine, non per forza in modo sensato, esistono poi i muri, le eterne pietre della coscienza, che nascondono e proteggono. Ne I muri questi semplici elementi architettonici diventano la base della costruzione ed organizzazione della vita sulla terra: “Ormai non riesco a immaginare” scrive Sottsass “un pianeta senza muri […]. Nei muri leggo le storie antiche e le storie moderne, […] le storie di moltitudini che hanno costruito, costruito, costruito speranze ovunque, che hanno nascosto disgrazie e misteri, […] che hanno costruito per circondare silenzi oscuri e banchetti rumorosi, […] che hanno segnato confini sulla terra per rappresentare distanze e miraggi.”

Il tempo della vita

La riflessione verso cui questo libro ci conduce riguarda essenzialmente il modo in cui pensiamo ed affrontiamo la nostra vita, ogni giorno, ogni istante, anche adesso. Riappropriandoci dei simboli della nostra esistenza potremmo recuperare la sensazione di presente che spesso sfugge alla nostra sensibilità. L’immediatezza, quasi completamente svanita dal nostro panorama temporale, è rimpiazzata dalla nostalgia e dall’ansia d’avvenire. Ci ritroviamo spesso inorriditi da quanto sottile sia il tempo, di quanto poco sia “il tempo di cui riusciamo ad avere consapevolezza.” Allora bisogna fare attenzione alla forma che prende la vita intorno a noi per restare svegli, guardinghi, vigili rispetto a quello che continuamente succede intorno, nelle cose, nella luce, negli odori, lungo i muri, nei mondi paralleli che abitiamo di volta in volta che cambiamo stanza, strada, paese, ogni volta che il paesaggio esteriore o interiore si trasforma. Questo non significa astrarsi e guardarci vivere da lontano, ma anzi penetrare nella realtà quando essa si compie. In questo stesso modo Sottsass ha fatto design ed ha vissuto, un modo in cui “tutto sembra avvenire come in un possibile sogno controllato e posseduto.”