Di donna in nonna 

Airs de rien di Silvia Malagugini

di Serena Rispoli

Silhouette sottile, pelle diafana, voce soave e cristallina, personalità parecchio tosta: Silvia Malagugini. Artista eclettica e vulcanica, una carriera a cavallo tra Italia e Francia, che si dirama in mille direzioni, guidata da una sete inesauribile di sperimentazione. Il suo lavoro, originale e inventivo, trova nella contaminazione di generi la linfa vitale di un’ispirazione che si rinnova nel tempo. Proprio dal gusto di mescolare elementi e stili diversi nasce Airs de rien, la sua ultima creazione che mi ha raccontato qualche tempo fa nella sua bella casa parigina, tra locandine, costumi, accessori, oggetti di scena che evocano il suo colorato e suggestivo universo.

Partiamo dal presente, da questo spettacolo, Airs de rien.

Airs de rien è nato da una raccolta di sei villanelle napoletane, componimenti musicali del Cinquecento di cui mi sono state regalate le partiture originali, a tre voci. La prima del lungo percorso di creazione tappa è stata trascriverle, perché erano scritte coi neumi, la scrittura medievale. Ho dovuto poi mettere insieme le tre voci, che sono in contrappunto. Un lavoro complesso che ha preso parecchi mesi. La ricerca è un aspetto molto importante del mio processo di creazione. Ho bisogno di studiare, di capire il materiale che utilizzo. Originariamente le villanelle erano concepite per tre voci maschili. Io invece ho fatto la scelta – non innocente – di farle cantare da tre donne. Integrando altri documenti sonori raccolti strada facendo, ho ricostruito un ciclo di vita femminile dalla nascita fino alla morte, intesa come un nuovo inizio. Una dimensione circolare della vita e del tempo, quindi femminile anche in questo senso. Mi interessava mescolare questo materiale molto sofisticato coi canti popolari, che fanno parte della mia storia da sempre, e con canti barocchi, da Monteverdi a Haendel. Sono nata in una famiglia in cui la musica classica ha avuto un ruolo importante, principalmente a causa di mia nonna, che era una cantante lirica russa. Veniva da quella regione che oggi è l’Ucraina, sul Mar Nero, precisamente da Sinfiropoli. Arrivò da sola in Italia, a Milano, intorno al 1910, ancora minorenne, per studiare il bel canto. Nonna Sierafima, detta Sima -che è poi il nome della mia compagnia- andò a vivere in una pensione per giovani artisti tenuta da Alessandrina Ravizza, una benefattrice della città di Milano. Oggi in città c’è un grande parco a lei dedicato e nel cimitero monumentale una zona delle donne celebri porta il suo nome. Russa anche lei, si sposò con un Italiano molto ricco. Fa parte delle figure importanti del socialismo filantropico dell’inizio del secolo scorso. Ha contribuito a creare le prime cucine per i poveri e ha fondato questa pensione per artisti, che doveva essere bellissima. Per guadagnarsi da vivere, mia nonna dava lezioni di piano e nello stesso tempo studiava il canto lirico. Giovanissima, cominciò a cantare alla Scala, nel cui museo sono oggi conservati materiali su di lei, e fu diretta persino da Toscanini. Nella pensione incontrò mio nonno Umberto, studente di ingegneria anche lui molto impegnato nel sociale: fu uno dei primi a ideare le case popolari che a quel tempo non esistevano. Si innamorarono, si sposarono e fecero cinque figli uno dietro l’altro. Ad un certo punto mia nonna dovete abbandonare la carriera di cantante lirica per occuparsi della famiglia. Cominciò a fare concerti da camera e poi rinunciò anche a quelli. Io non l’ho mai conosciuta, è morta giovane, a quarantaquattro anni. Secondo mia madre è morta per il dispiacere di aver dovuto abbandonare il canto. 

 

Ci sarebbe da fare uno spettacolo su questa storia…

Diciamo che ne ho fatto mezzo. Uno spettacolo in cui la invocavo di continuo. Negli anni mi sono detta che se faccio questo mestiere è proprio grazie a mia nonna. La sua figura mi ha molto influenzata, anche se ho fatto scelte diverse.  Io non ho avuto cinque figli, probabilmente per evitare di fare la sua stessa fine, ma ne ho adottato uno a cui sono molto legata. 

Il finale della storia è che Alessandrina Ravizza, detta Sacha, e il marito man mano persero tutte le loro ricchezze. Mia nonna Sima li accolse in casa sua, dove vissero fino alla morte, considerati da mia madre dei nonni putativi. Ancora oggi quando sento cantare in russo mi metto a piangere come una fontana.

Che nonna! E che donne! Ora capisco meglio il senso profondo della scelta di una dimensione al femminile in Airs de rien!

Ho voluto costruire lo spettacolo sulla figure di tre donne che sono come le prefiche, o le parche. Tre pleureuses che però in realtà piangono poco, anzi sono piene di vita. Ho lavorato molto sul tarantismo, sin dai tempi della mia tesi su Ernesto De Martino. Mi sarebbe piaciuto vedere le tarantolate, ma ormai questa tradizione non esiste praticamente più. A loro mi sono ispirata nel primo spettacolo che ho fatto appena arrivata in Francia, L’antro magico, il cui disco della colonna sonora ha avuto il premio Charles Lecrau per la canzone straniera. È stato un lavoro importantissimo per me, – insieme a La pierre qui chante- che ha avuto molto successo. Ho poi scoperto che le storie di tarante del sud d’Italia, ci sono anche in Sardegna dove si crede che l’argia, una varietà di tarantola, punga soprattutto gli uomini e li possieda. In certi rituali gli uomini si mettono una bambola sulla pancia e accompagnati da canti mimano il parto. Facendo queste ricerche ho trovato testi e termini sardi che mi piacevano moltissimo e che ho usato. Airs de rien, comincia appunto con la pupìa, la bambina, ed è composto da  un mélange di canti tradizionali di tutte le regioni d’Italia, di musica barocca e delle villanelle, che si collocano a metà strada tra la musica di tradizione orale e quella scritta. Mi piacciono perché sono come me: a cavallo tra due mondi, popolare e colto. All’inizio della mia carriera, al tempo di Bella ciao e Ci ragiono e canto di Dario Fo, i canti popolari, i canti di protesta, erano un’alternativa al mondo della musica borghese. In realtà ad un certo punto mi sono resa conto che per me l’importante è la trasversalità, il mettere in comunicazioni mondi solo in apparenza lontani. 

Lo stesso principio mi ha guidato per una creazione al consolato italiano a Parigi in occasione dei duecento anni della nascita di Giuseppe Verdi, nel 2013. Ho ricostruito il suo mondo, la locanda dei suoi genitori in cui era cresciuto, un universo in cui la musica popolare aveva un ruolo essenziale. Mi è venuta così l’idea di mescolare una canzone tradizionale come Venezia con la celeberrima aria Va’ pensiero, eseguite dal coro dei «Di sol e di la». Ero molto fiera del risultato.

Tornando a Airs de rien, importantissimo è stato l’incontro con Tommaso Buldini, un giovane pittore videasta incontrato in una fiera a Parigi. Ero rimasta affascinata dal suo lavoro e quando ho cominciato a montare lo spettacolo gli ho chiesto di creare una scenografia in video. Il risultato è una serie di immagini video che fanno da sfondo alle scene, dando creando un universo poetico che funziona molto bene. Ogni canto è accompagnato da un tableau, uno per ogni fase della vita della protagonista: la bambina, la giovane sposa, la donna tradita e la vedova. In ogni quadro si alternano testo recitato e canti da me riadattati, che scandiscono i vari momenti del racconto. I diversi piani narrano le fasi della vita di una donna, in cui il rapporto con l’uomo non è facile né felice e la vede sottomessa a lui che la domina e la tradisce. Arriverà però il momento della rivolta in cui lei riuscirà e riprendere in mano la propria esistenza. Una ninna nanna chiude lo spettacolo, simbolo della vita che ricomincia. Anne de Broca – attrice e cantante che ha scoperto il repertorio tradizionale frequentando i corsi di Giovanna Marini a Saint Denis – ha fatto una regia molto rispettosa e sobria. Non abbiamo strumenti musicali, ma Nicola Tescari, bravissimo compositore, ha concepito un suono elettroacustico che fa da filo conduttore e che lega i canti come le perle di una collana. Questo elemento ha una funzione drammaturgica (segue il filo del racconto), drammatica (crea un’atmosfera emotiva che oscilla tra paura e stupore) e pratica (ci dà le tonalità per il canto). In scena, oltre a me, Joëlle Faye, fedelissima della prima ora che canta nella mia compagnia da più di vent’anni e insegna musica d’insieme al conservatorio, anche lei formata al canto tradizionale da Giovanna Marini, dotata di una bella voce medium e di una grande cultura musicale, e Roberta Trapani, storica dell’arte palermitana al suo debutto teatrale che ha una straordinaria voce grave.

Tengo moltissimo a questo lavoro. Lo abbiamo presentato per la prima volta a Milano.

Ti conosco da quando sono arrivata a Parigi, negli anni ‘90 e ho assistito a un tuo concerto al Théâtre du Lierre de Farid Paya. Sei sempre stata molto attiva, quanti spettacoli hai fatto?

Sicuramente più di una decina, senza contare concerti e performance varie. Artisticamente sono nata con la musica popolare. All’inizio con Roberto Leydi, alla Casa della cultura di Milano. Poi tante collaborazioni importanti: Dario Fo, Giovanna Marini…

Un lavoro che ricordo con molto piacere è Le chant des Paladins, tratto da Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo. Era una creazione impegnativa, con molti artisti in scena: un racconta-storie, sei cantanti -tre uomini e tre donne tra cui io – una ballerina che interpretava il pupo (marionetta tradizionale siciliana che rappresenta i paladini di Francia n.d.r.) e aveva una bellissima spada musicale, due musicisti. Cantavamo a sei voci parti di Monteverdi, tratte dall’ottavo libro dei madrigali. Mi piacerebbe molto riprendere questo lavoro. All’inizio doveva essere il primo episodio di una trilogia. Chissà, magari un giorno…

Sarei rimasta ancora ore ad ascoltare i racconti di Silvia. Dopo averla salutata, mi è rimasta a lungo in mente l’immagine di lei che impugna la bella spada musicale a sonagli, come un’elegante e sorridente guerriera ritta in piedi nel salotto che per qualche ora era diventato un palcoscenico animato. Tornando a casa ho pensato alla trasmissione tra generazioni, quella femminile in particolare. Alla sua forza, la sua importanza, alle sue vie misteriose. Mi sono venute in mente le donne coraggiose, potenti, non di rado invisibili, dimenticate, spesso pioniere -ognuna nel suo campo – nel tracciare percorsi mai battuti, che discretamente e con grande sobrietà hanno fatto e fanno avanzare il mondo. Immagino come sarebbe orgogliosa nonna Sima di questa nipote. Quanto sarebbe fiera di averle trasmesso il dono del canto, l’amore per l’arte e il fuoco della ricerca continua di nuovi approdi. Airs de rien, Arie da niente, con riferimento naturalmente alle arie musicali, ma anche all’espressione francese che significa «far finta di niente». Titolo scelto in origine con leggera ironia nell’intento di non prendersi troppo sul serio. Oggi che il ruolo del teatro – della cultura in generale – viene messo radicalmente in discussione proprio dal niente (essere niente in quanto non essere o non valere niente) obbligandoci a riconsiderare bisogni e priorità, questo titolo acquista un senso più profondo e malinconico di quello che aveva ai tempi della nostra chiacchierata, che risale solo a qualche mese fa.

La replica de Airs de rien all’Istituto Italiano prevista a gennaio è stata annullata a causa della mancata riapertura delle sale di spettacolo. Non perdiamo la fede e restiamo in attesa della prossima data allo Studio de l’Ermitage, nel 20° arrondissement, che – potete già annotarlo sulle vostre agende – sarà l’11 marzo 2021. Non mancheremo di ricordarvelo sul sito di Focus In. Con l’augurio che questo nuovo anno ci porti presto la gioia di poter tornare a respirare l’aria e la polvere di un teatro.