E Genova in sé

a cura di Francesco Forlani

C’è una immagine nello sterminato archivio digitale di Matteo Galiazzo, che più di tutte ha catturato la mia attenzione e che trovate proprio qui accanto a questa nota. Si tratta di un’opera di Giulio Monteverde che rappresenta Cristoforo Colombo giovinetto, scultura esposta nel Castello D’Albertis e due sono le ragioni per cui, probabilmente, ne sono rimasto affascinato. 

La prima è in riferimento a quanto ci ricorda Matteo nell’intervista che segue, in cui ci racconta come i suoi paesaggi siano, per lo più, non abitati da persone. La seconda è perché vi è, implicitamente, una risposta a tale cifra stilistica. Come per la sua esperienza narrativa, emerge sempre una realtà sullo sfondo che però è sfocata, un orizzonte di senso poco decifrabile, che riconosci appena, a rendere possibile quel che appare nel primo piano. Ed è proprio l’immagine del ragazzo, pensoso, liricamente ripiegato su sé stesso, a determinare una testimonianza assoluta della realtà della città e della fuga da essa, il tagliare il filo dell’orizzonte con l’impresa memorabile della scoperta di altri mondi. Genova per voi è il titolo che abbiamo scelto per questo numero di Focus in, come se non esistesse una Genova per sé, raccontata da sé stessa, in modo oggettivo. Al massimo si potranno raccontare o cantare i suoi personaggi come ha fatto De Andrè. Non so se questo in fondo accada a tutte però non mi sorprende affatto che, se esiste un’immagine cartolina per ognuna delle nostre città italiane, lo stesso non possiamo dirlo per Genova. Del resto, le poesie più belle su Genova le ha scritte un livornese, Giorgio Caproni, come se gli abitanti della città ne sapessero i segreti senza volerli condividere con nessuno. Il fanciullo della foto distoglie lo sguardo dal paesaggio, ne è prova la torsione del busto rispetto alla città, ha visto tutto o almeno l’essenziale. La città gli calza come il tessuto sulle gambe, e aderisce fino a diventarne una seconda pelle. Così mi è parso il caleidoscopio di immagini che Matteo Galiazzo ha dedicato a Genova, uno sguardo irretito da una cataratta, in grado, attraverso l’opacità di quel che è visto, di cogliere l’essenza delle cose.

 

Ti ho conosciuto qualche anno fa a Genova come fotografo con Fabrizio Venerandi e Donald Datti. Quando ci siamo rivisti, sempre a Genova ero insieme ad Enrico Remmert ed è stato lui a dirmi: è il migliore scrittore della nostra generazione. Solo in un secondo momento ho realizzato che l’autore del testo più bello dell’antologia Einaudi dei Cannibali avesse la tua faccia. Mi interessava allora capire, e far capire, spiegare ai marziani. il tuo rapporto con la fotografia. Ho come l’impressione che la tua camera oscura tu l’abbia allestita nel tuo vecchio atelier di scrittore. Le tue immagini sembrano il prodotto della stessa matrice narrativa dei tuoi racconti. Sembri una zingara, di quelle che ti prendono la mano e ti dicono cos’è stato, della vita. I tuoi ritratti dicono sempre qualcosa di nuovo ai fortunati soggetti. Come fai a “prenderci” sempre?

Eh sì mo’ pure con foto… No, i fotografi sono cose serie, davvero. Io sono solo uno dei tanti che ora può fare moltissime foto a costo zero grazie al digitale. I fotografi le foto le sanno fare, in qualche modo la foto esiste già nella loro testa prima ancora di esistere sulla pellicola. è gente che sa far uscire dalla macchina e dalla scena e dal soggetto una certa immagine.

Io di fotografia non so niente. So solo che schiacciando il tasto dentro la macchina rimane una roba che figurativamente non riesco bene a prevedere (parte del piacere è proprio la sorpresa). Schiacciando il tasto milioni di volte statisticamente qualche foto bella viene a tutti. E io faccio così: schiaccio il tasto milioni di volte. È un approccio autistico che in informatica si chiama di forza bruta. Anche nell’era della pellicola facevo foto, ma ovviamente molte meno, che ne so, due rullini da 36 in dieci giorni? Ora in dieci giorni faccio 5000 foto. Ne faccio talmente tante che se le si guarda una dietro l’altra velocemente spesso viene fuori un filmato a scacchi, come nel caso di Siquilla.

Non ci vedo grossi legami con la scrittura. Fare foto è meno faticoso di scrivere. Scrivere è una roba che comunque implica l’esistenza di un altro essere umano che è il lettore. È come avere in casa qualcuno che devi ospitare e intrattenere, fargli vedere la città, portarlo a mangiare. Le foto invece io le faccio sostanzialmente per me. Non vuol dire che siano immagini ermetiche e incomprensibili, alla fine sono foto banali, ma non sono concepite come comunicazione. Forse sono un ausilio alla memoria, o forse boh. Sono una cosa che mi piace fare e riguardare. Poi certo, le metto su flickr, mi fa piacere che anche qualcun altro le guardi (e a me fa piacere guardare le foto degli altri) ma, ecco, mentre non avrebbe senso per me scrivere una cosa se sapessi che non la leggerà mai nessuno, mi sta benissimo fare foto che guarderò solo io.

Se vai su flickr vedi che il 96% delle foto che faccio non contiene esseri umani. Io tendo ad escluderli dall’immagine perché è raro che io li trovi in armonia con lo sfondo. Li ho sempre considerati una specie di inquinamento visivo. Ecco, se uno vede la maggior parte delle mie foto si potrebbe dire che sono sfondi senza soggetto. Sono per lo più scorci urbani senza persone. Posti che mi rilassano, piazzette. Zone pedonali vuote soprattutto. Scalinate. Zone che fanno venire voglia di camminarci dentro. Prati. Cose così. Non fotografo felicemente esseri umani, anche se ultimamente mi sto lentamente avvicinando ai viventi. Ma ancora mi frenano le implicazioni del fotografare una persona, in qualche modo mi sento sempre colpevole. Dovrei fotografare di nascosto. Allora la cosa migliore sono le presentazioni e le letture: lì fotografo quelli che parlano e il pubblico di sbieco. Però sono foto difficili: di solito si è sempre in ambienti bui, e poi gli scrittori si agitano parlando, e io non voglio mai usare il flash e così vengono sempre mosse.