Il colore in movimento

Igiaba Scego, la linea del colore

di Arianna Caringi

« Lei ha voluto essere ciò che era inventandosi un luogo per esistere. Un luogo per resistere. » È la parabola contenuta nel romanzo di Igiaba Scego, scrittrice italiana di origine somala, giornalista e attiva studiosa della transculturalità e della migrazione.

La protagonista dei viaggi (o del viaggio, unico, infinito e continuo) che percorre La linea del colore prende ispirazione dall’ostetrica abolizionista Sarah Parker Remond, morta a Roma il 13 dicembre 1894, una donna «nera e femminista». La Scego riceve una sua foto e, colpita da quello sguardo placido e serio, si getta nell’impresa di esplorarne la ricchezza narrativa, gli spunti di riflessione e gli elementi più edificanti. Accanto a questa figura portante si colloca la scultrice Edmonia Lewis, apparsa anche lei in tutta la sua statura in una foto d’epoca, offrendo lo sguardo al futuro che la stava già guardando dritta negli occhi. Da queste due scintille nasce Lafanu Brown, «un fiume che scorre», non solo un esempio di lotta ma di potenza artistica.

Il testo, sviluppandosi su due livelli narrativi, percorre in parallelo due tempi storici. La fine del XIX secolo è abitato dalla pittrice Chippewa Lafanu, che da Salenius (Stati Uniti) arriva a Roma in un’Italia appena riunita, non ancora nazione, e l’epoca contemporanea vissuta da Leila, giovane ricercatrice anche lei di discendenza africana ma fondamentalmente romana, che vive, in un dibattito interiore e sociale, un’Italia senza comprensione. L’elemento di maggior discrepanza in questo scarto temporale è il volto di una Roma che Lafanu definisce «La sua vera patria, in un mondo di esuli e sconfitti», e una Roma contemporanea, ugualmente complicata ma enormemente più ostile. Come se, vuole far trasparire l’autrice, la pretensione dello stato di assumerla a capitale le avesse inacidito lo spirito. È la terza vera protagonista del romanzo.

L’Italia vissuta da Lafanu era come una bestia sacra e selvaggia, «un mistero denso fatto di camere nascoste e trappole disseminate lungo i sentieri», «la fauce di un lupo affamato». Ma era anche terra di donne impavide e coraggiose come Circe, Scilla, Cariddi, «la dolce Sibilla. Le Sabine oltraggiate. Era Beatrice sdegnosa. Caterina la santa. Artemisia la coraggiosa. Sofonisba la talentuosa.». Ed era, soprattutto, «anche il bene che la gente si voleva.»

Rincorrendo il tempo e i suoi accadimenti, il racconto scorre tra un momento e l’altro della vita di Lafanu, conducendo alla conoscenza e scoperta del suo vissuto in modo graduale ma spontaneo, come levando e aggiungendo veli di colori diversi nel corso della storia. È solo a piccoli passi, infatti, che le scoperte, le violenze, il talento di Lafanu e la sua volontà di esplorarlo ci vengono spiegati e raccontati. Fu una ricca aristocratica americana a ripescarla nel lontano villaggio africano. La signora la trascina in America e ne fa la materializzazione di un intento a tratti perverso, a fini politici e sociali. Lafanu diventa l’oggetto incarnato dell’esibizione di bontà, grandezza d’animo e tolleranza, sentimenti del tutto puri e onorevoli, se non fossero macchiati da una volontà di affermazione, di vanto e presunta elevazione al cospetto dei circoli cittadini. Nonostante ciò, la giovane Chippewa riceve i mezzi per crescere e formarsi, avida di cultura e instancabilmente curiosa. Ovviamente però, tutto questo avrà il suo prezzo, chiamato discriminazione, abusi, violenza, crudeltà. Lafanu riuscirà comunque a resistere, non del tutto indenne, e a raggiungere l’amata Italia, la sognata Roma in cui solo si diventa artisti.

È molto romantica quest’idea che vede la meraviglia dell’arte precedere il concetto di un’Italia nazione, ancora inesistente, a testimonianza del fatto che essa sia nata prima opera di genio e poi ingarbugliato pensiero politico. Ma girando pagina, nel corso del racconto, l’eco dell’Italia contemporanea risponde cupo, scabroso, rendendo chiara la consapevolezza che se Lafanu vi fosse giunta adesso non sarebbe stata la stessa cosa. Come traspare dal romanzo infatti, quel melenso buonismo americano, sentimento comunque corrotto da un’ambizione egotica, nell’Italia contemporanea sarebbe impossibile. Questo sentimento ha cambiato ogni connotato di significato, assumendo quasi un’accezione del tutto negativa. Rimanendo lo stesso, il concetto tutto europeo (e occidentale) di Africa sembra essere evoluto e, a tratti, peggiorato. In un’intervista rivolta all’autrice da Enrico Manera, Igiaba Scego definisce menzogna l’idea che abbiamo ormai oggi di Europa e Africa:

«Secondo me l’Africa non esiste e nemmeno l’Europa esiste. […] Africa ed Europa sono entità fluide, fatte di passaggi, scambi, scontri, confronti, commerci, brutalità, paure, resilienza, resistenza, dominio. Entità fluide che per convenzione abbiamo separato. […] Tutto è in movimento. […] Sento che è necessario oggi più che mai mettere al centro un modo nuovo di intendere la storia dei continenti che abitano fuori e dentro di noi. Una storia nuova dove non ci siano più frontiere rigide, ma appunto che permettano di mescolare vissuti, avvenimenti, punti di vista»[1].

Il modo stesso in cui da bambini, a scuola, ci avviciniamo all’idea dell’Africa è deformato dalla visione di «un continente nato dalle navi negriere e dal colonialismo». In realtà, come si impara da adulti (anche se non sempre), l’Africa è tanti, tantissimi colori insieme, e lingue, culture, sapori. Questa differenziazione non viene mai associata al concetto di Africa. Perché ?

Nel piccolo volume L’Europe depuis l’Afrique, lo scrittore congolese Mabanckou racconta la costruzione dell’immagine che da bambino è nata in lui dell’Europa : «Nous rêvions de l’Europe, cette maîtresse tant convoitée, cette dame distinguée, parée de bijoux et qui nous tendait les bras dès que nous courions vers l’Océan.» Ricorda come, il padre, «l’index bien pointé vers l’horizon» definiva l’Europa come «c’est qu’il y a derrière l’Océan», tutto ciò che va oltre, che è lontano, che è invisibile e non contenibile. Non sta, in questo caso, ad indicare un continente, ma tutti i continenti che abbracciano lo spazio, tutti i luoghi raggiungibili dai venti e dal sole. Di questo Lafanu era convinta. Il sangue haitiano ereditato dal padre, grande viaggiatore, rendeva il suo passo leggero. «Io sono un fiume che scorre», afferma Lafanu, sempre in movimento.

Igiaba Scego è nata nel 1974 a Roma, da una famiglia di origini somale. Dopo essersi laureata in letterature straniere all’università “La Sapienza” di Roma, ha scelto di lavorare come giornalista e scrittrice, collaborando con quotidiani tra cui La Repubblica e Internazionale, ma anche con riviste che si occupano di temi a lei molto vicini: l’immigrazione e la cultura africana. I suoi genitori, fuggiti alla dittatura di Siad Barre, le hanno trasmesso i valori di un popolo costretto a sopportare vessazioni e regimi di cui a volte sembriamo voler dimenticare, forse perché appartengono anche al nostro passato, il passato coloniale di un Italia di cui non andare fieri.

Tra le sue pubblicazioni: Pecore nere. Racconti, Laterza, 2005; Quando nasci è una roulette. Giovani figli di migranti si raccontano, Terre di Mezzo, 2007; Amori Bicolori. Racconti, Laterza, 2007; Oltre Babilonia, Donzelli, 2008; La mia casa è dove sono, Rizzoli, 2010; Roma Negata, coautrice con Rino Bianchi. Ediesse, 2014; Adua, Giunti 2015; La linea del colore, Bompiani, 2020.

[1] Conversazione con Igiaba Scego e Carlo Greppi, in Doppiozero, 12 ottobre 2020 di E. Manera, https://www.doppiozero.com/materiali/unaltra-storia-conversazione-con-igiaba-scego-e-carlo-greppi