Il grande escluso

di Valentino M. Nisino

Uno dei film italiani che ha fatto più parlare di sé in questo tumultuoso 2020, Volevo nascondermi, firmato dall’autore del pluripremiato L’uomo che verrà (2009), Giorgio Diritti, è un biopic sull’artista tanto sconosciuto al grande pubblico quanto eccezionale, Antonio Ligabue, pittore e scultore italiano, parente dell’arte naïf di Henri Rousseau e Séraphine de Senlis.

In concorso al Festival internazionale del cinema di Berlino, la pellicola viene premiata con l’Orso d’argento per la migliore interpretazione maschile, che va a Elio Germano, interprete  eccelso e camaleontico di Ligabue.

Chiamarlo biopic sembra inappropriato: Volevo Nascondermi, in arrivo in Francia a fine anno, distribuito da Bodega Films, è più che altro una serie di pennellate che aprono squarci sull’esistenza tormentata, umile e unica di Ligabue.

Dagli incubi dell’infanzia in Svizzera, accudito da una famiglia adottiva e priva d’amore, a seguito della perdita della madre italiana, ai primi ricoveri in manicomio, fino all’arrivo nella pianura emiliana, poco più che un vagabondo, Antonio “Toni” Ligabue è escluso da tutti e lo sarà per sempre. Anche quando famoso e celebrato, resta oggetto di imbarazzo, lui con quel suo corpo storpio e malato, con quella mente provata. All’apice del successo, a Roma per l’inaugurazione della sua prima personale, fugge dalla stanza dei quadri per le strade notturne della capitale. Sul Ponte Sant’Angelo si ferma davanti ad un clochard accasciato a terra, confermando sempre e comunque la sua appartenenza agli ultimi. L’esclusione che Toni soffre non è soltanto di natura sociale, una ricerca frustrata e insoddisfatta di un posto proprio fra le gerarchie del mondo classista e classificato: egli rimane, soprattutto, un escluso dall’amore. È questo che Toni cerca furiosamente, inquieto, nelle sue manifestazioni emotive bestiali, nell’aia rincorrendo le galline, abbracciando e ruggendo alle sue tigri immaginarie, o tra le mura di una casa contadina mentre osserva devotamente la figlia della massaia. Il tabù è l’amore: un eden per sempre vietato a Toni.

Il film di Diritti non vuole essere una narrazione agiografica della vita di Ligabue, bensì un tentativo di riprodurre nel racconto la stessa inspiegabile, spontanea e contraddittoria forza dell’arte di Toni — metafora dell’arte in generale. Il titolo stesso sottace una contraddizione: il dichiarare di voler nascondersi enuncia una volontà di venire allo scoperto. Una tendenza che è connaturata alla condizione dell’artista e delle varie arti, incluso il cinema. Non a caso la prima inquadratura del film è un primo piano di Germano, del cui volto, nascosto da una coperta grigia, possiamo scorgere un solo occhio: un’immagine che rinvia immediatamente all’essenza del cinema, con l’occhio della macchina da presa, e del proiettore. Come per l’Edipo re (1967) di Pier Paolo Pasolini, in parte ambientato anch’esso nella crepuscolare e silenziosamente feroce Italia piccolo-borghese degli anni Venti, la camera di Diritti vaga, alternando un découpageclassico a inquadrature realizzate deformando l’immagine. Similmente alla “soggettiva libera indiretta” di Pasolini, Diritti ritrae le scene dell’interazione di Ligabue con gli animali, alienando, e perciò intensificando il punto di vista del protagonista, soprattutto con l’uso di obiettivi alteranti la percezione visiva convenzionale.

Bolognese, la cui carriera annovera collaborazioni con Federico Fellini — sul set de La voce della luna (1990), ispirato a Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni, non lontano dal “vagabondaggio” di Ligabue — e Ermanno Olmi, Diritti racconta con disinvoltura e sapienza la stridente lotta universale di un artista che ha cercato, lungo tutta una vita, uno sguardo d’amore compassionevole, un’assoluzione materna per poter mostrarsi nella propria luminosa, scandalizzante, forza, e così finalmente essere in grado di affrancarsi dall’esilio dell’esclusione.