Il tempo ritrovato di Swann

Chloé, 27 anni, italiana di terza generazione, è considerata tra le voci più originali della nouvelle vague française. Pop, Rock, molto Velvet Underground e Bowie, ma anche, a sorpresa autrice di una cover tutta italiana nel suo nuovo album.

Chloé o Swann?

Swann è il mio alter ego artistico, però entrando più nei dettagli, direi che Swann è il personaggio che mi permette di esteriorizzare delle cose che di fatto non mi autorizzo nella vita di tutti i giorni.

C’è il tuo métissage, dai nonni italiani a quelli malgasci, francese per i tuoi genitori e canti in inglese.

Canto in inglese dalla prima canzone che ho composto quando ero ragazzina, dagli inizi, è una lingua che mi permette di dire cose che non avrei osato dire nella mia lingua, usando delle parole che non mi verrebbe di impiegare nella vita ordinaria, essendo una persona in fondo molto riservata, ma soprattutto di affrontare dei temi in una lingua che i miei genitori non avrebbero capito. E’ la mia lingua di libertà.

Ti ho conosciuto che eri giovanissima e ricordo come insieme a tuo fratello più piccolo Luca, batterista jazz, per i nostri corsi d’italiano un giorno mi avete regalato una versione di “Una vita spericolata”, per me indimenticabile. A proposito di métissage, anche artisticamente c’è nel tuo percorso una certa trasversalità nei generi. Quali sono i tuoi modelli?

Quando ho cominciato a comporre non ne avevo veramente di modelli a cui ispirarmi, avevo solo una grande voglia di esprimermi, poi con il tempo ho scoperto degli amori musicali come i Velvet Underground, Nico, naturalmente, e ti confesserò che quando in un articolo su Libération è stata evocata una certa somiglianza con lei, quasi non ci credevo. Mi fa piacere perché in lei c’è qualcosa di misterioso, di intenso e allo stesso tempo, di questo te ne rendi conto subito al primo ascolto, una ferita profonda, e poi questo contrasto che percepisci, una grande emozione dissimulata sotto un’aria fredda e distante. Mi piace molto questa ambiguità. E non ti dico l’emozione che ho provato quando sono salita sul palco della Philarmonie per il Paris Velvet, in occasione della mostra per i cinquant’anni della prima uscita della band. Comunque gli anni settanta sono per me la grande époque, Bowie è un gigante per me, anche se come interprete dei miei tempi sono molto attenta a quello che si fa ai nostri giorni. Attingere al passato, guardando al futuro e sperando in questo lavoro che fai su di te di aprire delle porte a cui non avevi nemmeno pensato. A proposito di questa reinvenzione del passato come non pensare ai Nouvelle Vague che hanno rivisitato tutto il repertorio new wave, punk rock con ritmi più jazzati e vere chicche come Guns on Brixton in cui la voce di Camille si staglia alla perfezione.

Per tornare alle origini cos’è per te l’Italia?

Innanzitutto le vacanze, in effetti l’ho conosciuta attraverso le estati con tutti i cliché del caso, questi lunghi viaggi fatti con la famiglia, essere immersi nel dolce far niente, in un canto permanente che solo una lingua musicale come l’italiano può darsi semplicemente parlandola, ascoltandola. Una lingua che mi fa sognare.

Sei un’italiana di terza generazione ma sembrerebbe che la vera trasmissione in una famiglia si faccia proprio dai nonni ai nipoti, che ne pensi?

In effetti credo di avere un rapporto molto speciale con mia nonna Enrichetta, Enrichetta Tabacco, friulana; ci parliamo tantissimo, è a lei che chiedo di raccontarmi le cose, come del suo arrivo in Francia, della sua infanzia italiana e dei sogni in Francia. Ricordo che nessuno voleva che partisse, certo sua madre l’aveva autorizzata, ma eravamo in pieni anni ’50, e raggiungere nel nord della Francia delle persone di riferimento, un punto di appoggio non era proprio una passeggiata; per farsi riconoscere dai cugini ormai in Francia da un pezzo, si era vestita di rosso portando con sé una valigia, una grossa valigia piena di libri. Per me questa è un’immagine di grande poesia. In fondo questa fotografia un po’ virata seppia di una ragazza che da sola, decide di venire a studiare e vivere in Francia, è come dire, la consapevolezza di una scelta a dir poco audace per l’epoca. Ci capita di raccontarcelo spesso questo episodio. Le chiedo ogni volta di ripetermela come una bambina che non si stanca di ascoltare la stessa favola.

Nonostante la giovane età hai sempre portato fino in fondo i tuoi progetti, animata da una ambizione sana ai limiti dell’ossessione, dal punto di vista artistico. Successi e fallimenti. Cos’è per te un fallimento?

La vita mi ha riservato dei passaggi difficili e pur avendo avuto consapevolezza di certi insuccessi devo dire che mi ha salvato l’orgoglio: sono talmente orgogliosa che pur sapendo di avere commesso degli sbagli non lo ammetterò mai e poi mai (gran sorriso). Per me è un’esperienza permanente, ho la sensazione di essere en échec tout le temps, di non riuscire a fare le cose che desidero. Però me ne sono fatta una ragione e trovo, soprattutto attraverso la musica, la forza, l’energia per andare oltre. Scrivere canzoni, comporre musica è qualcosa di così intimamente necessario che non assecondare questo desiderio, il piacere immenso che mi fa vivere la vita a pieni polmoni, quello sì sarebbe un fallimento.

Come interprete nei tuoi dischi è possibile ascoltare anche delle magnifiche cover, penso per esempio a quella di “Una lacrima sul viso”…

In effetti quando ero piccola, da mia nonna c’erano sempre dei dischi, delle compilation di classici della canzone pop italiana, e insieme li ascoltavamo. Mi piace molto la varieté italienne degli anni Settanta, canzoni semplici molto dirette, con magnifiche orchestrazioni su belle melodie. Negli anni settanta poi grazie anche all’Eurovision, come mi ha detto un amico italiano recentemente, c’era una grande comunicazione tra l’Italia e la Francia. Molti cantanti come Aznavour, Dalida, Sylvie Vartan, Antoine, venivano in Italia per cantare, in italiano, i loro successi o quelli dei loro colleghi d’oltralpe. E di colpo quelle canzoni sono entrate nell’immaginario di tutti anche di chi, come me, a quell’epoca non era nemmeno nata, prendi per esempio Gigliola Cinquetti, “Non ho l’età, non ho l’età” (la canticchia).

La tua è una generazione di artisti e giovani che ha vissuto sulla propria pelle l’ondata di attentati, a cominciare dal Bataclan fino alla strage di Nizza. Cosa succede in questi casi?

È tutto così presente che non credo ci sia stato il tempo di tentare un’elaborazione sia psicologica che artistica. Il tema della morte, peraltro presente nel mio immaginario, in casi come questi sembra nemmeno pertinente. Cosa succede nella mente degli attentatori? Cosa in quella delle vittime? Sono tutti interrogativi che spero davvero non rimangano senza risposta.

A questo proposito la scrittura interviene nella tua ricerca, qual è il tuo rapporto con i libri?

Devo dire che la poesia più che il romanzo ha formato davvero il mio immaginario. Per i romanzi ti confesso che ho un problema di concentrazione per cui le mie letture si sono concentrate soprattutto sui poeti. Baudelaire e Victor Hugo, per esempio, che per me è un vero maestro. Di quest’ultimo ho letteralmente divorato la corrispondenza con Juliette Drouet, l’effusione dei sentimenti tra lo scrittore e la sua amante. Per le canzoni trovo per esempio i testi dei Velvet Underground diretti nella loro semplicità e belli. Prendi per esempio Lou Reed, I’ll be your mirror. L’uno diventa specchio dell’altro, ne indovina le mosse, riesce perfino ad anticipare quello che sentirà o sta pensando. Queste parole le trovo sublimi perché credo sia quello che abbiamo sempre sognato di sentirci dire. Poi Leonard Cohen. Perché è un artista che riesce a mettersi continuamente in discussione e a esplorare nuove strade.

L’uscita dell’album?

L’Ep Black Lights è uscito a Giugno. Il mio secondo disco uscirà all’inizio del prossimo anno. Swann, noi siamo dalla tua parte. Mi piace sentire ridere Marussa. Perché c’è in quel riso qualcosa che riunisce euforia e fatica, successo e fallimento. E accade sempre qualcosa quando si continua la visita nell’attigua Pièce unique\variations, al 26 della rue Mazarine, praticamente dietro l’angolo e in cui si declina l’unicità dell’opera esposta in vetrina. Ma se c’è qualcosa di estremamente forte, puntuale ogni volta che si passa da lì è lo scambio di sguardi tra Marussa e Christine Lahoud, già consulente finanziaria per la galleria, che non trovò di meglio da rispondere a Marussa, a fine 1994 , poco dopo la morte di Lucio Amelio, e alla ricerca di soluzioni in grado di garantire la transizione: «Lascio tutto. Mi sono annoiata di questo lavoro e mi metto in società con te».

C’è un qualcosa che faccia da termometro alla tua temperatura di gallerista? Cosa ti fa scegliere un’opera?

A guidarmi è l’ emozione vera. Ok, tu ti dici ho avuto la grande facilità e fortuna di viaggiare e il mio obiettivo è riuscire a colpire nell’immaginario persone che si spostano poco, per quanto si abbia oggi l’impressione con la rete di viaggiare da qualsiasi posto in qualunque luogo. Io quando sono in altri posti ed entrando in una galleria, un museo un’associazione,  ho una grande emozione cerco sempre d’incontrare l’autore l’autrice, per quella emozione perché se riesco ad ottenere da questa persona un progetto penso di contribuire in modo forte a un’idea di bellezza; ecco, mi piace pensare che Christine ed io da vent’anni a questa parte abbiamo portato il nostro contributo a questa causa. In un momento in cui, credimi, la finanza, la grande finanza che muove il mercato tenta in ogni modo di manipolare i gusti, di neutralizzare la vera creazione. Da anni sto pensando di scrivere, magari con un nom de plume, un pamphlet che sia una ribellione a questo desiderio di omologarci e  di costringerci con mille mezzi a mettere in difficoltà ogni idea di bellezza. Non ci fermeranno. Con Christine ci siamo inventati questa dimensione da esploratori, l’unica in grado di nutrire la nostra curiosità, d’inventarci con i viaggi le occasioni di scoperta, e dopo la scoperta, spesso ad insaputa dell’artista, seguirne il percorso che fanno. È come se ne diventassimo le cartografe di quella esperienza.

Non ci manca il rigore con cui determiniamo le nostre carte e che viene da questo duplice sguardo che può essere un fuoco incrociato ravvivato da dibattiti. Certo ci capitano dei no, e spesso la ragione di questi no non viene dall’artista ma ancora una volta da quei poteri finanziari che ne condizionano le scelte. A proposito di curiosità, però vorrei raccontarti una cosa. Quando Ma Dan, giovanissima artista cinese venne ad esporre da noi due anni fa, per lei era il primo viaggio fuori dalla Cina, in assoluto in Francia  e Parigi  la tenne a battesimo. I suoi occhi increduli guardavano tutte le meraviglie che solo questa città sa offrirti, e che l’avevano letteralmente stregata. Camminava a testa in su come in un paese incantato.