Isole napoletane

Testo e Foto di Grazia Coppola

 

36° e 30’ Ø nord/13° e 00’ λ est “Qui finiscono le parole, e qui finisce il mondo che conosco. In questo tremendo isolamento dove ogni mondanità è ridotta al minimo, solo le cose eterne durano … L’isola di Corvo non ha peso nel mondo, ma in nessun posto come qui si sente con tanta forza la realtà e il peso del tempo” (Raul Brandão, Le isole sconosciute).
Conoscevano le isole come interruzioni del mare, rottura nell’universo, dell’indistinto e dell’informe, punti dove la materia liquida si contraeva momentaneamente ma che poteva ritornare allo stato fluido, oasi numinose, e per questo luoghi vaghi, mobili, illusori: varchi aperti verso un altrove lontanissimo o vicinissimo al nostro mondo di uomini. Questi navigatori sapevano che la mente dell’uomo sulle isole poteva cambiare stato e materia, che sulle isole era possibile incontrare i loro dei o ricrearli, anche se a mille miglia dalle loro terre d’origine” (Delle isole, dell’isola. Riccardo Esposito).
In Danimarca l’isola sta tutta nella lettera ø. Unico carattere, parola isola. Cerco sempre le isole piccole, quelle ridotte a un carattere in un foglio bianco, quelle che sono un punto con tanto mare intorno. Non ho senso dell’orientamento, niente, nemmeno un poco, vago nelle pagine dei libri che parlano di isole poi mi metto in mare a volte per cercarle. Io so che esiste l’isola, anche se nella mia lingua ci vogliono cinque lettere per chiamarla, ma un tempo ci fu chi si mise in mare senza saperlo, non aveva parole per rappresentare il concetto. Delle isole la prima cosa è la forma, la distanza. La forma dell’isola di Capri è un mantra che si ripete all’infinito.

Nelle isole è bene arrivare con una imbarcazione che non abbia fretta, e un ponte, una prua, da cui vedere piano quella forma diventare qualcosa: roccia.. vegetazione.. anfratti.. dirupi.. costruzioni.. porto. Ho letto che il momento migliore per sbarcare su un’isola è il primo mattino, cosicché uscendo dal buio si possa scorgere nelle prime luci del giorno quel profilo. L’avvistamento iniziale, come nell’amore, può essere seduzione a prima vista.
A Procida arrivarci con una barca piccola, radente il mare, è vedere l’isola specchiata nell’acqua, fare la corsa coi gabbiani a chi fa prima, stare tra il vero e il suo riflesso, diventare colore pastello.
Certe volte il corpo vuole Ischia, il calore che esce dalla terra, abbandonarsi alle acque e ai vapori. Su a S’Angelo, per stare nell’isola piccola sull’isola grande, pernottare in una camera sopra la spiaggia dei Maronti, addormentarsi con la risacca del mare, di giorno farci l’uovo sodo in quella sabbia che brucia. Dal lato opposto, a Lacco ameno, nel parco termale, gli odori delle spezie mediterranee sono parte di quell’incredibile concessione ai sensi.
A Procida, soggiornare nella pensione del colore del mare, la spiaggia della Chiaiolella è poco profonda, starci un tempo breve sotto la calura, poi rifugiarsi sotto uno chalet a mangiare pesce, preparato senza artifizi, come nella cucina greca descritta dalla Yourcenar. Si dice nesos in greco l’isola. Nel pomeriggio camminarci di fianco a quella spiaggia, ma senza bagnanti, con un po’ di vento. Poi correre giù alla Corricella a vedere i pescatori riparare le reti, stare nella quiete dell’isola tra le insegne retrò e le zucche sui tetti, mangiare una lingua al limone nel tempo intatto. Alla spiaggia del postino per salutare i morti nel cimitero che prende la rincorsa verso il muro che tiene di là la vita, nell’odore e rumore del mare.
Le isole sono belle sì, ma non entrano bene in una descrizione rassicurante. Nemmeno a guardarle dall’alto, dall’austerità di un carcere dismesso in cui albergano piccioni del nuovo millennio. Le isole possono essere infide e i marinai lo sanno, su esse tutto può succedere. Esistono isole mobili, avvicinarle è impossibile perché sono di tanto in là dall’essere afferrate. E se ci sbarchi è con il sospetto di trovarci le creature più strane e storie indicibili. Da sempre luoghi di reclusione, esilii. Da sempre luoghi di libertà estreme. C’è un posto sopra ogni altro in cui avverto lo spavento dell’isola, in cui mi giro per il fiato sul collo di un Dio nascosto. Col mare crespo e folate di vento che potrebbero dal piccolo sentiero buttarmi giù dalla roccia, dopo una pioggia che ha risvegliato l’odore del mirto di ottobre, in un’ora del pomeriggio in cui non ci sono turisti né campanelle e megafoni di barconi che salgono dal mare. Essere lì soli, o al più con un’altra sconosciuta presenza intravista, ad aggravare la reciproca inquietudine. A Capri. Da Tragara a Matermania o nel senso inverso, non c’è campo a Pizzolungo, non c’è scampo. Devono essere andate li a nascondersi, stratificate, tante mute presenze, alcune dormono nel giardino della memoria. Hanno fatto dei loro respiri un unico fiato, un soffio di cui sei parte ti sospinge nel labirinto temuto e desiderato.

L’essere un’isola in greco si dice nesizo. Attraversando a piedi la caldera di Santorini, da Fira a Oia, ho sentito qualcosa di simile nel punto in cui la strada si sterra e il sentiero si restringe, da lì, dentro una natura meravigliosamente e selvaggiamente colorata, lontano dall’accanimento umano alla edificazione, l’isola greca ha l’aspetto di un animale preistorico addormentato nel mare.

Ho letto che nell’isola di Mauna Loa, nelle Hawaii, in mezzo al Pacifico si misura la concentrazione di anidride carbonica CO2 nell’atmosfera. L’uomo ha perso l’equilibrio con la natura e il senso del sacro. Ho letto che secondo una recente ricerca le isole del mondo sarebbero 17.883 in base a un criterio che prende in considerazione solo quelle di grandezza superiore al km quadrato. Ma se ora chiedessi le isole napoletane, ad esempio, quante sono, quante dita di mano servirebbero per contarle? Se ora chi legge chiudesse gli occhi e provasse a elencarle. Quante, non quali. Non basta una mano e tre dita, e forse nemmeno due mani. Esposito nel suo Intorno all’isola, nel contenitore arcipelago napoletano e flegreo, oltre a Capri, Ischia e Procida nomina Vivara, Nisida, la Gaiola, Megaride (Castel dell’Ovo), l’isolotto ischitano del Castello aragonese e l’isola di Isca di fronte alla Costiera amalfitana, l’isoletta di Vetara e le isole de Li Galli. E ancora, gli isolotti del Lazzaretto, di San Leonardo e di San Vincenzo. C’è tra le righe non la volontà di elencarle tutte, piuttosto il suo è un modo per dire quanto vano e sfuggente sia il tentativo di una catalogazione insulare precisa.
Giorni fa ho letto in un libro questa frase; “Se il nostro mondo non fosse già del tutto scoperto, forse mi sarei imbarcata su una nave con la speranza di essere la prima a avvistare una terra ancora sconosciuta o addirittura a metterci piede”. C’è chi avventatamente crede a questo punto che il mondo sia interamente scoperto, tutte le mappe tracciate e giurerebbe che non ci sono più isole da scoprire. Poi c’è lo strano popolo di esseri che trovano in qualche modo irresistibili le isole, al punto da sentire nel piccolo mondo circondato dal mare una inspiegabile ebbrezza.

Nei quaderni di Gideon questa specie di afflizione dello spirito è descritta come una malattia non ancora classificata dalla scienza medica, la “isolomania”. Pare, scrive Lawrence Durrel citando i quaderni, si tratti dei discendenti diretti degli abitanti di Atlantide, il loro inappagabile desiderio di isola è un inconscio anelare all’Atlantide perduta. Ho letto che dalle isole si va via al crepuscolo e senza voltarsi indietro, avendo come meta – sempre – un’altra isola.