Le jeu de rôle

Per chi come noi vive da tanti anni a Parigi non è la stampa, non sono le cronache, né tanto meno la televisione a darci l’esatta temperatura del nostro paese, indicazioni precise sui mutamenti in atto della nostra cultura di appartenenza, sulla trasformazione del paesaggio non solo ambientale ma mentale delle nostre terre. A dirci cosa succede in Italia, in fondo, sono i giovani che qui a Parigi arrivano da ogni angolo d’Italia, con o senza diplomi, accomunati dalla speranza di fare bene, meglio di quanto si sarebbe fatto rimanendo nella propria città d’origine. Credo che lo stato di salute di un paese come il nostro si possa determinare proprio dalla capacità delle nuove generazioni di misurarsi con le proprie paure, con le distanze, le separazioni, e di dare un disegno ai propri sogni, metterci quella giusta ambizione e dose d’incoscienza che sono necessari per trasformarsi e trasformare il mondo fino a renderlo migliore. E ognuno di loro lo fa, lo abbiamo visto in questi anni, nel campo in cui hanno deciso di mettere in gioco sé stessi. Oggi vi raccontiamo di Francesca Golia.

Sono nata e vissuta a Salerno fino ai 18 anni. In questi giorni guardo le strade di Salerno – il duomo, il centro storico, le luci natalizie che quest’anno sono più sobrie degli altri anni – e penso con gratitudine che la mia è una città bellissima. Sinceramente, è soltanto da qualche anno che ho iniziato ad apprezzarla, un po’ perché è diventata più bella, un po’ perché quando ci abitavo ero troppo impegnata ad andare “contro”. Tanto per cominciare, con i capelli fucsia e una catena della bicicletta al collo (che mi ha provocato qualche piccolo danno irreversibile) sfidavo l’eleganza degli studenti del mio liceo, il Tasso – giustamente considerato il liceo dei “cachielli”. Una delle mie più grandi soddisfazioni legate ai tempi del liceo è stata la sua occupazione, insieme ad altri studenti dell’ultimo anno. Ricordo di aver fatto un corso sulle Operette moralidi Leopardi e incredibilmente avevo tantissimi studenti. Ci tenevo molto a sfidare i miei professori, perciò preferivo andare in biblioteca invece che a scuola oppure ostentavo in classe un libro di poesie, quando avrei dovuto ascoltare una spiegazione. Per questo motivo ho grande simpatia per gli studenti che mi sfidano, anzi trovo lo facciano troppo poco. In quegli anni però la mia passione era il teatro al quale mi dedicavo insieme alla danza e al canto (agli ultimi due con meno successo), ma il mio sogno era quello di diventare un’attrice di cinema.

 

Una lunga esperienza italiana. Cosa ci puoi raccontare: cosa e quanto ha contribuito alla tua formazione?

Da quando ho finito la scuola mi sono trasferita a Roma, finora la mia città di adozione. I luoghi a cui sono più legata sono quelli del centro storico, vicino Campo dei Fiori, dove ho lavorato in un piccolo teatro in via dei Cappellari. Per gli undici anni nei quali ho vissuto a Roma ho lavorato nel cinema e nel teatro. A dire la verità Roma era sempre un punto di partenza, il luogo dei provini e degli incontri, perché ho lavorato molto di più a Napoli, anzi avrei voluto lavorarci ancora di più. In quanto salernitana per diversi anni mi ero sentita in dovere di avere qualche riserva su Napoli (tra noi funziona così), ma mi è bastato trascorrervi qualche settimana per innamorarmene. Abitavo dietro piazza del Gesù, ma il quartiere che ho amato di più è Montesanto, dove torno ogni volta che posso: questo quartiere è la prova che una comunità possa cambiare la propria realtà a partire dai dettagli più irrisori. Se queste esperienze mi hanno formata, il luogo dei miei studi è stato New York, dove ho frequentato la Lee Strasberg, una scuola di cinema, teatro e danza, indimenticabile anche perché mi ha permesso di iniziare a lavorare nel cinema. Non ho amato molto la città, ma l’ho vissuta molto intensamente: secondo il più trito dei cliché, avevo una storia d’amore tormentata con un pittore della scena underground.Ho conosciuto persone veramente bizzarre e a quel punto i miei capelli fucsia risultavano la cosa più ordinaria che avessi mai visto. Tanto voleva tornare bionda e, dopo poco più di un anno, tornare in Italia dove sembravo essere diventata più interessante agli occhi degli agenti e dei casting.

 

Da quanti anni sei a Parigi? Perché Parigi?

Sono a Parigi da due anni e mezzo. Avevo da un anno iniziato il dottorato in letteratura a Roma e a dire il vero volevo approfittare delle connessioni universitarie tra Francia e Italia – con la scusa di fare qualche mese di ricerca a Parigi, volevo cercare qui un agente di cinema. Una volta arrivata a Parigi, però, con mia sorpresa il mezzo mi è piaciuto più del fine: ho preferito dedicarmi alla ricerca universitaria più che a quella di un agente.
Poi ho trovato qui un luogo del cuore, nel dipartimento di Italianistica della Sorbonne Nouvelle, dove quest’anno ho avuto anche la possibilità di insegnare. Non sono poche le difficoltà di un percorso obliquo e a volte accidentato come il mio e ogni giorno mi chiedo se abbia senso fare quello che faccio. Questa domanda non mi tormenta, anzi mi fa bene – penso mi mantenga più giovane delle creme che mettevo prima di un servizio fotografico – e in ogni caso la mia risposta è sì. La mia tesi mi appassiona perché mi spinge a seguire le tracce di una ricerca del sacro nei luoghi più insoliti, tra le pagine di autori insospettabili e mi permette di allargare la prospettiva alle arti visive, oltre che alla letteratura.
(Mi chiedi della mia passione per i gesuiti. Non so se chiamarla passione, sicuramente è una curiosità nata leggendo l’Ulisse di Joyce, il quale parlava talmente male dei gesuiti che per il mio spirito di contraddizione mi aveva fatto venire voglia di approfondire l’argomento. Dai, lo dico: quando ero molto più giovane mi ero alla fine decisa a diventare un gesuita, anche perché avevo letto di una donna che ci era riuscita travestendosi da uomo, ma in effetti non avevo il physique du rôlee alla fine ho scelto un’altra strada.

 

Nel ruolo della suora nella Grande Bellezza di Paolo Sorrentino

 

Qual è stata la tua esperienza più bella nel cinema? Collaborazioni, personaggi ecc.

Le esperienze belle sono tante, ma due le più belle. La prima è stata recitare ne Lo Spazio Biancodi Francesca Comenicini: il mio primo film e il mio ruolo più bello – una giovanissima madre di due figli prematuri. Ho fatto tante ricerche in ospedale e ho preparato il mio ruolo ascoltando quello che molte madri mi hanno raccontato: avevo l’impressione di entrare in un universo parallelo fatto di lunghissime attese in ospedale davanti a un’incubatrice e di tanti dettagli che spesso ignoriamo. E poi era ambientato a Napoli.
L’altra è stata la Grande Bellezza: che dire? Desideravo lavorare con Paolo Sorrentino più di ogni altra cosa. Quando la casting mi ha comunicato che avrei fatto un provino, la mia reazione è stata a dir poco entusiasta e lei mi ha detto che non potevo arrivare al provino così “carica”. Allora ho ballato per un paio d’ore ascoltando le colonne sonore dei suoi film e poi sono andata: alla fine ero così mite e posata che Sorrentino mi ha scelto per fare la suora.
Quando abbiamo girato il film, delle altre scene non sapevo quasi nulla e così gli altri attori, ad eccezione dei protagonisti: è stata una scelta registica per mantenere quell’autonomia dei frammenti che è a mio avviso la forza del film. Uno degli aspetti più divertenti di questa esperienza è stata la scelta (non so di chi, ma mi piacerebbe saperlo) di collocare me – vestita da suora dal mattino presto – e Serena Grandi nello stesso camerino. La Grandi parlava al telefono, fumava continuamente e a un certo punto mi ha messo davanti agli occhi il suo piede, chiedendomi di allacciarle un sandalo. Normalmente avrei avuto una reazione molto diversa, ma ho pensato che non c’era nulla di più adatto al mio personaggio: mi sono inginocchiata e le ho umilmente allacciato il sandalo.

 

Tra letteratura e cinema, cosa preferisci rispetto alla tua vita?

Ora la letteratura, anche perché la studio per il dottorato, ma per molti anni ho avuto con il cinema un rapporto esagerato: ci andavo veramente tutti i giorni.

 

Qual è il più bel film italiano visto in questi mesi?

Devo dirti che ho visto pochi film italiani ultimamente. Mi è piaciuto molto Martin Eden: l’ho trovato poetico e in alcuni punti coraggioso, ma credo si fermi un momento prima di lasciare il segno.

 

Perché tantissimi giovani italiani vengono qui per fare cinema o letteratura secondo te?

Hai proprio ragione: sono tantissimi. Forse perché studio Italianistica e nel mio dipartimento siamo quasi tutti italiani, a volte ho l’impressione che siamo più dei francesi a Parigi. Molti di noi arrivano qui perché pensano di poter trovare più possibilità di lavoro e a volte è vero, ma non credo sia questo che spinge a rimanere. Una volta qui, tra una conferenza e una lettura di poesie, come fai a lasciare Parigi?

 

Esiste una comunità culturale qui?

Sì, non esito a dire di si ed è forse il lato più affascinante di questa città. Uno dei motivi che mi hanno spinto a restare è stato l’incontro con giovani ricercatori, scrittori e poeti: il dialogo che si è creato tra noi ha davvero cambiato la mia ricerca e mi aiutato nelle mie riflessioni. Nel migliore dei casi questa comunità fa i conti con le proprie radici, ma si tratta di italiani che hanno “smussato gli angoli” per vivere un dialogo fecondo con questa città. Nei casi peggiori ho a volte l’impressione che alcuni italiani vivano un po’ isolati: sono a Parigi, ma è come se vivessero ancora in Italia.