Nascita e morte della massaia

a cura di Arianna Caringi

Questa donna si chiama Paola Masino, e scrive nella fine degli anni ’30. Il suo libro, Nascita e morte della massaia, più che raccontare, evoca la storia di una vita che, dalla nascita, assomiglia all’impassibilità della morte. La massaia, voce parlante, trascorre la sua infanzia in un legnoso e pesante baule angusto in cui esperisce senza esperienza l’esistenza. Il suo rintanarsi tra croste ammuffite di pane, pizzi di vedova e libri, corrisponde ad una resistenza che non porterà avanti fino alla fine. Viene infatti stanata, sfregata e pulita dal marciume di cui la sua condizione di larva l’aveva rivestita, e offerta (sacrificata) alla società. È questo l’inizio di una battaglia di una donna che si vuole come esempio universale. 

Il romanzo, composto tra il 1938 e il 1939, uscì dapprima in frammenti nel settimanale Tempo, su richiesta dell’editore Alberto Mondadori. Dal momento che la rivista era destinata ad un pubblico per lo più ampio e disparato e che cercava solo un altro modo per distrarsi dall’atto oppressivo della riflessione, la Masino fu portata ad attenuare il suo stile stralunato ed il suo sferzante nichilismo. Ma in fondo, la natura irriducibile del testo era quella di aspra e schietta denuncia nei confronti del ruolo della donna nella società, come prima istanza, e dei meccanismi esterni e irrimediabili che imprigionano l’anima, secondo una più profonda ed accurata lettura. L’opera, che uscì in volume nel 1945 per Bompiani, fu minata letteralmente dal bombardamento su Milano del 1943, che ne distrusse le bozze, e, figurativamente, dalla censura fascista che la scalfì e la modificò per permetterle di vedere la luce. 

La Masino impastò dunque la sua prosa in un magma astratto e visionario: suo obiettivo era celare dietro l’ambiguità della scrittura una verità scottante che avrebbe potuto raggiungere solo il lettore in grado recepirla. Come un messaggio in una bottiglia gettata nel mare. 

La prospettiva della scrittrice sulla realtà risulta così imbevuta di sogno: questo è il suo punto di vista sul mondo e sulla vita, una vita che appare solo come l’ombra della morte: 

Esaurite per il momento le sue funeste speculazioni intorno alle cose universali si esaminò e s’accorse che di tutte le cose, tutte, poteva indicare il dolore, l’angoscia suprema, e dire il modo della disperazione, il suono del pianto: non della nascita.

E d’altronde della massaia la «madre», colei che è donna «due volte», fonte stessa della vita, ritrova nella figlia il simbolo inverso della morte: 

Nascere è passare traverso un dolore ostile e altrui che ci conservava, per andare dove il nostro proprio dolore ci attrae, che ci consumerà. Per questo dunque l’amore materno è una forza sempre lacerata.

Proprio per rimediare a questo dolore, la massaia compirà il sacrificio dell’entrata nel mondo reale:

Rinuncio per pietà filiale e dunque merito ogni castigo. Cominciamo. Cominciate a castigarmi; sono davanti a voi e per questo. Regina sbagliata che si conduce da sola al patibolo.

Il suo sguardo posato sulle cose rileva solo la soglia della trascendenza; ne nasce una scrittura che pare srotolarsi fluida direttamente dal luogo dell’inconscio. Noncurante della tendenza neorealistica che prendeva piede nell’Italia degli anni ’30 e ’40, si sbarazza di ogni mezzo e codice della rappresentazione moderna, trasfigurando i luoghi fisici della sua vita in scenari surreali e interiori, associando il sogno interno alla realtà esteriore, e facendone confondere il limite al lettore. Questo, colui che legge, è sconvolto da scenari improvvisamente fantastici, quasi fiabeschi. Lo sbalzo continuo tra i vari modelli narrativi contribuisce ad annebbiare lo sguardo sulle effettive vicende raccontate, attraverso un linguaggio spesso poetico e drammaturgico, con raffinate scelte linguistiche. Si alternano tratti parodici, descrizioni surreali, paragrafi onirici, prosa saggistica, testo diaristico e interi brani teatrali. 

LA MASSAIA (gridando) E a che cosa serve? Con questo le salvate le mogli e le figlie e le sorelle? Destinate tutte a finire simboli per il pubblico, e luogo comune per i loro uomini? Le togliete dall’assillo della materialità del vivere quotidiano? Dall’attrito delle minime necessità sullo spirito, dal costringere al passo il corpo che andava al galoppo, il cuore che sapeva volare, e l’anima che si divertiva a far capriole? […] Ma la donna già sul corpo porta scadenze, regole e necessità di precauzioni.

CARDINALE Figliola mia, ma la condanna biblica alla maternità non è che la condanna alla maternità della vita. Bisogna accettare con riconoscenza le punizioni divine e dunque fare della vita la cosa più materiale possibile.

Occorre a questo punto fare un passo indietro, e distanziarci quanto possibile dal guardare questo romanzo esclusivamente come una denuncia nei confronti di una società (quella di ieri, quella di oggi) che confina le donne in un meccanismo in grado di oliare e allietare la vita dell’uomo. Occorre, è necessario, è di primaria importanza, osservarlo per i suoi sbalzi rappresentativi, per l’arguzia ricercata delle sue invettive, per la stupefacente descrizione atipica del sentimento che talvolta abita gli abissi dell’uomo e che può convivere, inosservato, sotto le apparenze di una vita quotidianamente regolata. 

La massaia, nell’oppressione domestica della casa che andrà ad abitare – dopo aver sposato uno zio, marito ottuso e premuroso – sarà spesso tormentata da sogni terrificanti, che la abitano sin dalla giovinezza. Sogna ragnatele, nei muri, tra le pieghe dell’abito, sul viso, sul collo. È la volontà di «addomesticarsi», di rendere stantia l’anima e i suoi desideri. Le ragnatele sono simbolo di una realtà paludosa e mortifera.

Il rigore in cui rinchiuderà questa profondità di sentimento, le permetterà di frenare quei sogni che la trasportano in una vita diversa dalla sua, in altri luoghi lontani dalla «casa». Li elimina per perseguire la «cristallizzazione» della massaia, che avveniva con un moto blando che le dava l’apparenza di quella provvida ebetudine, peculiare di quasi tutte le donne e tanto celebrata dagli uomini. Così, grazie alla sua ferrea volontà, s’inibì di mai più sognare, proibizione che mantenne fino alla morte.

La Massaia non ha un nome proprio, non è qualcuno. La massaia è tutti, e attenzione: non solo tutte, bensì tutti coloro che hanno spogliato la propria volontà dell’anima. Oltre a leggere nel romanzo della Masino la cruda denuncia della condizione sociale ed esistenziale della donna durante il regime fascista, oggi possiamo ricavarne anche un avvertimento di più ampio raggio, più diffuso e generale. È «massaia» colui che viene trascinato, nelle sue scelte e nelle sue azioni, da agenti che lo sopraffanno e lo schiacciano, e che gli impediscono di sognare:

Così vivono ingiusto e corruzione mentre il puro e il giusto rimangono desideri remoti nella vita della civiltà.