Nella selva dell’insegnamento: “Par-delà la forêt” di Francesco Forlani

di Andrea Inglese

Par-delà la forêt è un volume di appena centocinquanta pagine, ma dalle molteplici anime. È un romanzo breve autobiografico, in cui l’autore-protagonista, un cinquantenne italiano espatriato a Parigi, narra alcuni episodi salienti del suo primo anno d’insegnamento dell’italiano, nell’ambiente scolastico francese. Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta piuttosto di un racconto lungo autobiografico, o di un saggio travestito da finzione narrativa, o di un diario costruito come una meditazione filosofica, ma a base di digressioni. È tutto questo probabilmente, e anche altro. Par-delà la forêt è un libro di testimonianza, che non ha però un trauma individuale da esibire. È il resoconto di un’avventura collettiva, quella dell’insegnamento e dell’apprendimento, che però non pretende di dire tutto, che non offre nemmeno verità rassicuranti o profezie catastrofiche. È un libro che, in forma epistolare, si rivolge a un allievo, né amico né nemico, ma interlocutore inevitabile di chi indossa il ruolo d’insegnante. È anche un manuale di sopravvivenza del supplente non automunito, che si sveglia alle quattro e mezza di mattina e somma, negli spostamenti per raggiungere complessi scolastici remoti, svariati mezzi pubblici e vetture di colleghi magnanimi. In realtà, smentendo il suo stesso titolo, è una narrazione tutta interna alla foresta, labirintica appunto, per emblemi, intrichi di citazioni, frangersi di voci.

Par-delà la forêt è un libro di Francesco Forlani, un autore italiano, che però scrive anche in francese, come in questo caso, e ha una generale attitudine da scrittore tardo-settecentesco, poligrafo e cosmopolita, come il Jean-Jacques Rousseau che ha un ruolo importante nel suo libro. I poligrafi cosmopoliti non avevano la superstizione dei generi, né quella dell’identità culturale. La stessa disinvoltura è riscontrabile nell’itinerario di Francesco Forlani, che scrive romanzi, inchieste narrative, pamphlet, racconti, poesie, testi da recitare, spesso in una lingua ibrida e comica, che ospita l’italiano, il francese, il napoletano, e vari gerghi popolari oltre che dotti e specialistici. Inoltre, Forlani, è un inquieto passeur. E non solo è incapace di rimanere accoccolato in una lingua sola e in un solo orizzonte culturale, ma si sposta tra Francia e Italia al ritmo di vita delle riviste letterarie, di cui è fondatore o animatore o redattore, ossia al ritmo della scoperta e della prima traduzione, quando la letteratura è incontrata sia navigando a vista, in zone non ancora registrate dalle mappe accademiche, sia nelle discussioni dirette con gli autori, tra una sigaretta e un calvados, seduti al tavolino dei caffè. Di questa ricchezza da sguardo strabico, di comparatista eternamente dilettante e vorace, è fatto anche quest’ultimo libro. Ma, qui, la baldanza e il nomadismo dell’autore trovano un punto d’ancoraggio centrale in un’esperienza al contempo ordinaria ed estrema, quella dell’insegnamento nei ranghi dell’Éducation nationale. A differenza del virologo o del trader professionista, il mestiere dell’insegnante sembra senza mistero. Tutti sono passati, in vita loro, per le condotte educative o formative di un insegnante. E tutti coloro che hanno figli, continuano a mantenere un rapporto con questo tipo di mestiere. Nulla di più banale, per certi versi, che un uomo o una donna seduti dietro una cattedra, con una lavagna alle spalle. D’altra parte, questo mestiere, in Francia ad esempio, può uccidere. Si muore per suicidio, come nel caso dei due insegnanti evocati nel libro: uno, sessantenne, che si è impiccato nella foresta di Montmorency, e una, quarantenne, che si è data fuoco nel cortile della scuola. Sono i due spettri che aleggiano tetri e opachi nel corso dell’intero romanzo, ma la loro presenza di sfondo assomiglia a quella di due delitti non elucidati, e che l’autore si guarda bene dall’elucidare. L’insegnamento, ci mostra Forlani, è per certi versi una faccenda circense: fatta d’improvvisazioni, numeri spericolati, prestidigitazioni, cadute e scivoloni plateali, ma anche di risate e sgonfiamenti improvvisi della tensione. Più che l’assillante rincorsa del programma, conta la capacità di fare del fuori-programma, più che la lotta all’ultimo sangue per il rispetto delle regole, conta il grado di energia trasmesso ai ragazzi. Ma questo significa, in realtà, che non vi sono ricette, in quanto l’autore per primo non ne ha: quello che ha funzionato una volta, può rivelarsi fallimentare la seguente. E poi ci sono gli spettri, a ricordare che il circo è uno spettacolo, dove i leoni non sbranano e i trapezisti non si schiantano al suolo, ma fino a un certo punto.

Nel libro, la foresta è quella reale che separa due cittadine della periferia occidentale di Parigi: Dreux e Anet. Nella prima, il protagonista insegna in una scuola media “difficile”, classificata nella terminologia istituzionale francese come REP+; nella seconda, in una scuola media “normale”, ossia frequentata in stragrande maggioranza da figli del ceto medio bianco. La foresta costituisce, allora, una frontiera innanzitutto di classe, la traccia di una frattura sociale, che la scuola dovrebbe per miracolo ricomporre. Al di là della foresta, vuol dire allora immaginare una scuola in cui le due popolazioni di alunni, la sfavorita e la normale, la poco francese e la sicuramente francese, si mescolino, e cessino di evolvere dentro ambienti omogenei nel bene e nel male. Ma l’al di là della foresta vuol dire forse anche altro, per Forlani; non per forza un punto, in cui finalmente le tensioni, le opacità, le frontiere si dissolvono. La foresta non è un ingombro aggirabile o sopprimibile, in quanto è necessario passarci attraverso. La foresta è ciò che rende il legame educativo, e quindi l’avventura dell’insegnamento, qualcosa che non ha niente dell’ovvietà, della chiarezza e della linearità, che tutti vorrebbero vederci, dai pedagoghi professionisti ai responsabili politici, dagli insegnanti stessi ai genitori degli allievi. In una società altamente complessa e conflittuale come la nostra, l’istituzione scolastica, con la sua pesantezza amministrativa e didattica, le attese sociali esasperate che suscita, le fragilità umane che ospita, non può che funzionare come un intrico di elementi non facili da decifrare e tra i quali il docente e l’allievo si muovono entrambi alla ricerca di un possibile incontro. Questa, almeno, è l’immagine che Forlani ci restituisce con chiaroveggenza e sensibilità: lo sforzo, per ognuno, di capire in che modo fronteggiare quel tempo dell’obbligo, quello spazio confinato, in cui qualcosa di essenziale dovrebbe giocarsi tra chi ha la pretesa di trasmettere e chi ha il dovere di ricevere. Nulla è scontato, e nulla dovrebbe essere dato per scontato, tanto meno da chi ha la pretesa di guardare da fuori e dall’alto dentro quel folto.