Odio Recanati ma non riesco a scriverlo

di Lidia Massari

 

Il viaggiatore che intenda salire a Recanati verosimilmente si muoverà dalla costa – dall’uscita autostradale, o da uno dei tanti paesi marini votati al turismo estivo, e spettrali d’inverno -, salendo dolcemente su per la collina fino a trovarsi di fronte una porta – porta Marina, appunto – tardo settecentesca, a guardia di una via ripida e stretta: “tutto qua?”. No, non tutto. Recanati dorme distesa sul suo colle, lungo e stretto, che ne segna profondamente l’urbanistica, ma questo primo approdo è ingannevole e ambiguo: il viaggiatore non si rende subito conto che sta penetrando in città dall’angolo est.
Recanati è una città ambigua, ingannevole, doppia. Qui non si capita a caso, quasi mai. Il ricordo di Silvia e dei sabati del villaggio e dei passeri e del colle ermo è irremovibilmente depositato nella memoria collettiva degli Italiani tutti, anche al netto di una istruzione frettolosa. Leopardi è poeta nazionale, e Leopardi è Recanati e il suo paesaggio. O almeno così si racconta.
Saliamo ancora, per poco: ci si apre di fronte una strada, finalmente pianeggiante, che è la spina dorsale della città. Ci dirigiamo a sinistra, fra bei palazzi nobiliari, fino a raggiungere la casa della famiglia Antici (la madre di Giacomo) e, poco oltre, palazzo Leopardi, sulla piazzetta che ispirò il canto del sabato. Di fronte, la casa di Silvia, le casupole popolari, le botteghe artigiane. Tutto come allora, e il turista è lieto di non vedere turbati i ricordi scolastici, si rallegra nel raccordare in maniera così precisa quei luoghi alle immagini che la scuola gli ha stampato nella mente, e ne ricava un senso profondo di soddisfazione. Non c’è turista che, fotografando questi luoghi, non cerchi di oggettivare l’immagine che dentro di sé conserva della poesia leopardiana. E ci riesce, quasi sempre. È un fenomeno raro, che capita solo qui, con questa nettezza.
Eppure. Ai tempi di Giacomo – non si stupisca, il visitatore, noi lo chiamiamo così, è di casa – Recanati era diversa, e non poco. Fu alla fine dell’Ottocento, quando vennero concessi fondi importanti alla città anche per costruire l’enorme, sovradimensionato municipio che affaccia sull’ampia piazza, che Recanati cominciò un’opera di maquillage tesa a farla assomigliare quanto più possibile a quella descritta da Leopardi nei Canti. Con l’Unità fresca di pochi decenni, il poeta che aveva magnificato la gloria d’Italia in canzoni che oggi sono pochissimo lette divenne, anche grazie a Carducci, il Poeta. Poi, più tardi, il fascismo troverà conveniente martellare sui buoni valori della civiltà contadina, come emerge in un raro film di Francesco Pasinetti, in cui recanatesi veri si mescolano, in modo quasi impercettibile, con comparse vestite come nell’Ottocento, delineando un quadro idilliaco, ucronico, eterno. E molto tranquillizzante. Che è poi quello che il turista cerca di fermare nella memoria della sua fotocamera. E invece la città, che nei due secoli passati da Giacomo è cresciuta, trasformandosi da borgo rurale a cittadina di artigiani e industriali, e abbandonando quasi del tutto il suo carattere contadino, ormai funzionale solo alla ricostruzione fantastica di una dimensione borghigiana sparita da molto, continua a interpretare il suo ruolo di sfondo ideale della poesia di un grande poeta, operando scelte urbanistiche tese alla ricostruzione filologica del passato, in barba alla naturale evoluzione che ogni città sana attraversa. Ed è così che a giugno i recanatesi si sono trovati di fronte alla novità di una casa di Silvia dipinta in rosso acceso, quando per molte generazioni l’avevano vista identica agli altri palazzi, coi mattoni di cotto a vista. Recanati ambigua e ingannevole, appunto.

Casa Leopardi

Torniamo indietro, percorriamo la spina di questa città piena, dalla primavera all’estate, di turisti e scolaresche in cerca di conferme: incontreremo, all’interno di un chiostro, la torre su cui si immagina cantasse il passero solitario e poi, poco dopo, il palazzo nobiliare forse più bello della città, Palazzo Venieri. L’armonioso cortile, rimaneggiato in tempi recenti, conserva un loggiato cinquecentesco di grande eleganza, e un terrazzo che affaccia, magnifico, sulla pianura verso il mare, Loreto, il Cònero e, quando è limpido, sulle isole croate. “Volat irreparabile tempus”, ammonisce l’orologio che lo sovrasta: dobbiamo incamminarci, comincia ad essere tardi.
Oltrepassata la piazza, al cui centro spicca la statua di un Giacomo ingobbito e tristissimo, ci avviamo verso il lato montano del colle. Il corso, che presto diventa una viuzza angusta, è costeggiato da palazzi che non lasciano vedere lo scenario sontuoso della campagna che sale a diventare Appennino in pochi chilometri. Questi palazzi, e il corso, ci raccontano, a saperli leggere, una storia molto più antica di quella di Giacomo. Recanati era la sede, tra Medioevo e Rinascimento, di una delle fiere più importanti del centro Italia, e la ricchezza delle abitazioni, per quanto profondamente rimaneggiate, lo testimonia. Se poi si devia verso l’antico quartiere di Monte Volpino, si possono scoprire le tracce dell’antico ghetto ebraico, e magari ci si appassionerà della storia del rabbino Menahem Recanati, cabalista medievale.
Arriviamo finalmente al Duomo, dietro il quale si apre il cortile di un altro bel palazzo, arricchito da un parco importante: villa Colloredo-Mels, sede dei musei cittadini. Molte sono le meraviglie che qui si possono trovare, persino la tomba di un papa. Ma l’opera che attrae qualunque visitatore, magnetica e sospesa, è quella che raffigura una ragazzina che accoglie sorpresa (e impotente) l’annunzio di un angelo atletico che la sorprende alle spalle, e spaventa anche il gatto. Francesco Scarabicchi, poeta di Ancona, ha scritto pagine splendide sull’inquieto Lorenzo Lotto: pittore veneziano anticonformista e poco incline a tollerare la supremazia di Tiziano, sceglie di costeggiare l’Adriatico in direzione sud, approdando a Loreto, dove ha lasciato capolavori assoluti. Come questa tavola, da dove gli occhi di Maria ti seguono, se ti muovi.
Usciamo, forse è il tramonto, e qui il sole muore tra i monti. Non si può descrivere l’effetto degli arancioni dei rossi dei rosa e dei gialli sulla campagna verde che sale dolcemente fino pendici dei Sibillini, che chiudono l’orizzonte. È questo il mare immenso che Giacomo, chiudendo gli occhi, immaginava: sono questi quei monti che sognava di valicare, agognando di fuggire dal borgo selvaggio e bellissimo in cui gli era toccato di nascere.