Tre piani di Nanni Moretti

La ricerca di una nuova dimensione

di Valentino N. Misino

Dopo ben sei anni di assenza, Nanni Moretti torna al cinema con Tre piani, libero adattamento dell’omonimo romanzo di Eskhol Nevo. Film pronto da quasi due anni che il regista ha voluto presentare in presenza al Festival di Cannes di quest’anno, attendendo la fine dei lockdown da Covid. 

Salutato con undici minuti di applausi sulla Croisette, Tre piani è finalmente nelle sale in Italia. Attesissimo in Francia, l’uscita è prevista a novembre. L’anteprima francese della pellicola si è svolta nello storico cinema Louxor di Parigi, come parte delle celebrazioni del centenario di attività della storica sala cinematografica.

Le tre storie segretamente connesse di una palazzina di Tel Aviv sono trasposte in un immobile borghese di Roma di tre piani: ad ogni piano un nucleo famigliare composto da tre persone. Le loro vicende si svolgono nell’arco temporale di quindici anni – che corrispondono, non così casualmente, all’arco di tempo che intercorre tra le uscite degli ultimi film morettiani, Habemus Papam (2011) e Mia Madre (2015) – scanditi da tre ellissi che orchestrano la narrazione. 

L’inciting incident dell’intreccio è letteralmente un incidente, mortale, ai piedi della palazzina, protagonista del film, lungamente presentata nel piano sequenza dei titoli di testa: Andrea, un adolescente ubriaco travolge una donna per strada e si schianta contro la vetrina del pianterreno del palazzo, sotto gli occhi di Monica, in procinto di correre all’ospedale per partorire. 

Una morte, una nascita: la danza della vita. Beatrice, la figlia nata nella notte fatale, il cui nome di dantesca memoria la dice lunga, è l’unico personaggio che per i due terzi del film non partecipa all’algidità emotiva che invade il resto del cast, mostrando un’umanità spontanea e commovente. 

Un’altra bambina, Francesca, figlia della coppia del primo piano, Lucio e Sara, traumatizzata dall’automobile schiantatasi nella vetrina dello studio di suo padre, sembra mantenere questo stato di shock per tutto il primo atto. Lucio sospetta che sua figlia sia stata abusata dall’anziano portinaio della palazzina, a cui lui e sua moglie hanno l’abitudine di lasciare in custodia la bambina. In preda ad un’ossessione per la presunta violenza sessuale su Francesca, Lucio si ritrova ad avere un rapporto sessuale con la giovane e avvenente minorenne Charlotte, nipote del portinaio. Un’altra corrispondenza narrativa dettata da un’ineluttabilità da tragedia classica. 

All’ultimo piano, due giudici, Dora e Vittorio, interpretato dallo stesso Moretti, sono i genitori di Andrea, combattuti tra il senso del dovere imposto dalla loro persona pubblica e amore filiale. L’incomunicabilità dei rapporti nella famiglia (e nella società) contemporanea trova il suo culmine nelle mezze frasi – vere e proprie sentenze – che Vittorio scaglia contro suo figlio, mentre Dora tenta, senza successo, di rammendare l’equilibrio del focolare domestico. 

Con Tre piani, lo spettatore entra in un mondo alieno, congelato, in cui i protagonisti si sforzano di interpretare il proprio ruolo sociale, restando imprigionati, lobotomizzati. La direzione degli attori scompone quasi brechtianamente l’essenza della chimera sociale postmoderna, restituendoci interpretazioni che mettono a disagio lo spettatore e lo interpellano direttamente in questo stesso scacco emotivo.

Come la Tel Aviv del romanzo, anche la Roma della pellicola è eletta a microcosmo specchio dell’universale e dell’animo umano: i tre piani del palazzo, sono simbolicamente, i tre stati elaborati da Freud, le cosiddette istanze della personalità. L’Es al primo piano, personificato da Lucio, padre di famiglia ossessionato dalla realtà delle cose e dei fatti, simboleggia la dimensione istintiva, a tratti animalesca dell’essere umano.

Al secondo piano, l’Io, una madre sola (chiamata da alcuni “la vedova”). Madre che, nonostante l’ossessione-timore di essere mentalmente malata, nutre un sentimento di amore assoluto per la propria creatura. Nel desiderio costante di amare e di essere amata evoca la mediazione inconscia tra la censura e l’istinto.

Infine, al terzo piano, il Super Io dell’istituzione, incarnata dall’entità dei genitori-giudici, emblema di controllo e divieto. Con un clin d’oeil metatestuale, Moretti cela il suo statuto di regista, ma anche di sceneggiatore e produttore, nel suo essere figura di comando, ossia padre e giudice. 

Similmente a Tiresia, le sue laconiche battute marcano lapidarie l’andamento del film. Cosa vuol dirci allora questo Moretti “maturo” e “imborghesito” quando, nell’atto terzo, Vittorio esce di scena e lascia la vita del palazzo farsi nel suo scorrere? C’è una dichiarazione d’impotenza, del limite, del proprio essere inadatto a cogliere pienamente e vivere la contemporaneità. 

Tre piani è un film sulla mancanza, sull’inabilità nel comprendere la realtà intima dei rapporti così come quella esterna dei meccanismi sociali all’epoca del pre- e post-Covid. Moretti non autorizza disfattismo o pessimismo epocale però, lascia anzi trapelare attraverso gesti istintivi dei suoi personaggi, giustapposti alla loro esistenza anestetizzata, una forza tanto labile quanto latente ma viva. E questa potenza guizza fuori occasionalmente soprattutto nelle azioni delle protagoniste femminili del film, in primis la sempre eccellente Margherita Buy, sua partner in crime dopo Mia Madre.

Con il suo scomparire, Moretti si fa deus absconditus, lasciando a chi guarda il film la responsabilità del cogliere il “messaggio”, se di messaggio ancora si può parlare. E capiamo che i tre piani del film si caricano ulteriormente di senso, diventando i tre piani della composizione bidimensionale dell’immagine, filmica, con foreground, middle ground e background. Il triplice piano potrebbe anche riferirsi ai tre enti del meccanismo cinema: il piano della narrazione che si proietta sul piano dello schermo per poi comunicare con il piano del pubblico.

La morte del Padre è una presa di coscienza dell’autore che decide di fare tabula rasa e lascia il pubblico alla sua quête di sensi. Quello che ne resta è un commovente gioco telefonico con una dimensione altra in absentia che Dora conduce, non senza commuoverci, e che rievoca le registrazioni antonioniane de La notte e L’eclisse.

Ed abbiamo l’impressione di poter afferrare qualcosa di indeterminato che è già obiettivamente, per suo statuto, un invito alla speranza. Cogliamo questo sfuggente sentimento che si afferma e si nega al contempo nei luoghi di passaggio tra i piani: per le scale – come nell’inizio del rosselliniano Europa 51 – o nel piazzale davanti al palazzo, o ancora lontano, nell’agro romano assolato. Dove l’umano sembra ritrovare quella parvenza vitale e/o mortifera (chissà…) a cui anela.