Un’arte dei pezzi

Se c’è una cosa che mi affascina più di tutte della Francia è la folie qui anime son esprit cartesien; solo i francesi, gli inventori del metro e della misura, unico popolo a donare natura divina alla “ragione”, potevano infatti concepire un cartello come quello che si incrocia scendendo da Parigi verso l’Italia  e che recita letteralmente: ligne de partage des eaux, ovvero il punto esatto in cui le acque dei fiumi si separano tra quelle che si dirigeranno verso il Mediterraneo e le altre ben più ambiziose destinate alle rive dell’Oceano Atlantico. Alla certezza del fatto che debba pur esistere un punto preciso di separazione delle cose, le coordinate di tale punto saranno sempre approssimative sulle nostre carte mentali, a volte il frutto di una decisione arbitraria come quando sarà il taglio del cordone ombelicale a stabilire fino a che punto giunga il corpo della madre e a partire da quale cominci quello del figlio. Così nei musei d’arte moderna e contemporanea, nelle fiere d’arte, generalmente un cartello tra due aree ci indica dove cominci l’una e finisca l’altra, seppure riesca difficile definire un canone in grado di stabilire, una volta e per tutte, per un’opera a quale dei due tempi essa appartenga. Con queste domande insieme ai pugni nelle tasche, ho attraversato la Senna per raggiugere nel cuore della Rive gauche la galleria Pièce Unique, al numero 4 della rue Jacques-Callot, nel sesto arrondissement. Tra due anni saranno infatti trenta le primavere di esistenza di questo luogo dal concept molto semplice, una galleria un’opera incorniciata da una grande vetrina sulla strada, accessibile a tutti, creata dallo straordinario Lucio Amelio, il gallerista che rivoluzionò il mondo dell’arte italiana e internazionale con la complicità di artisti come Andy Warhol e Joseph Beuys ; Pièce Unique è diretta da Marussa Gravagnuolo e Christine Lahoud, napoletana la prima e originaria del Libano la seconda, come a dire che se ci fossimo imbattuti in quel famoso cartello d’una cosa saremmo certi ed è che in qualsiasi posto si sia diretti nel mondo il luogo dell’origine sarà sicuramente il Mediterraneo. Da qui sono passate le pièces uniques di Mario Merz, Bertrand Lavier, Ernesto Tatafiore, Marisa Albanese, Fabrizio Plessi, Braco Dimitrijevic, Jan Van Oost, Jean-François Fourtou con un occhio attento all’arte al femminile, da Yayoi Kusama a Beverly Pepper, da Louise Bourgeois a Pat Steir, da Sophia Vari, alla giovanissima artista cinese Dan Wen Xing.
Conosco Marussa da una vita, attraverso le magnifiche poesie di suo fratello Paolo Gravagnuolo frequentato a Napoli negli anni Ottanta, ma soprattutto grazie ai racconti di una nostra amica di sempre, Barbara Waschimps, poetessa, traduttrice napoletana doc come testimoniato dal cognome. Quando arrivo e suono si affaccia dalla finestra degli uffici del piano rialzato e mi fa segno di salire mentre risponde al telefono. Davanti a me l’opera di Jean-Pierre Raynaud hommage dell’artista alla femme universelle.

Marussa quando decidi di andare via da Napoli?    

Era verso la fine del ’76 dopo la laurea a Napoli in storia dell’Arte con il professor Rotili, con una tesi sulla porcellana di Capodimonte. L’episodio chiave, di quelli che ti fanno decidere senza esitazioni fu una travolgente storia d’amore  con l’uomo che un anno dopo sarebbe diventato mio marito: Fabrizio Caròla (Architetto). E poiché per ogni cominciamento deve esserci per forza un viaggio, il nostro fu irripetibile; partimmo con un camion che imbarcammo  su una bananiera a Livorno, destinazione Veracruz, in Messico, arrivammo dopo più di 20 giorni e per sei mesi attraversammo tutto il Centro America; posti ormai difficili da attraversare in auto o camion a causa dei conflitti che avrebbero scatenato le successive guerre civili. Guatemala, Honduras, Costarica una piccola svizzera sia climaticamente sia politicamente con università e a tutt’oggi senza esercito … e che funziona perfettamente. Il Nicaragua praticamente in rovina, distrutto dal terribile terremoto di quattro anni prima. Sosta di altri 20 giorni a Panama, all’epoca non esisteva la PanAmericana, quindi attendemmo un’ altra bananiera che dopo varie tappe in  Colombia, ci lasciò nel porto di Guayaquil in Ecuador; da lì arrivammo in camion in Perù dove restammo un mese e mezzo, girandolo in lungo e largo, meraviglioso paese e, dopo il lago Titicaca sospeso a 4000 metri arrivammo in Brasile  S. Paolo e Rio da dove rientrammo in aereo. Il viaggio prevedeva lunghe soste nelle capitali, perché solo le capitali all’epoca avevano il servizio di fermo posta ovvero l’unico modo che avevamo di comunicare con i nostri in Italia.  Ricordo ore interminabili in sale d’attesa quasi annegati nei mille dialetti e lingue che si parlavano intorno a noi. All’epoca era, ripeto, l’unico modo di riuscire a comunicare con le nostre famiglie o amici. In questi stessi luoghi facevamo telegrafiche telefonate a carico del destinatario, sperando che accettasse, ed era lì che si ricevevano i famosi vaglia postali con cui sopravvivere, visto che non esistevano le carte di credito, o almeno noi, di certo, non le avevamo.

E cosa ti ha spinto a venire a Parigi?

Alla fine del ‘77, in un primo momento e definitivamente dopo il rapimento di Aldo Moro. L’amore per il cinema la spinta. Era quello il campo, televisione e cinema, in cui avevo lavorato di più in quegli anni, soprattutto documentari. A Parigi ebbi la fortuna di frequentare l’Idhec (L’Institut des hautes études cinématographiques). Non vinsi il concorso ma mi autorizzarono a seguire tutti i corsi da auditrice libera. Calcola che erano ammessi solo 20 studenti, 18 francesi, 2 stranieri, del resto era lì che bisognava andare in quegli anni per studiare, capire, immaginare il cinema. Eppure non avresti mai immaginato la sequenza un po’ à la François Truffaut che ti ha cambiato la vita. 1988.  Place St. Michel. Gros plan. La fontana e poco distante la rue de Seine… Lucio Amelio. Come in un sogno, lo incontrai per caso, non distante da qui. Avrebbe incontrato a pranzo, per il progetto di una nuova galleria, Christine e Isy Brachot. Mi riconosce subito, ci conoscevamo già attraverso anche le nostre famiglie e come se fosse la cosa più naturale di questo mondo mi fa: “Vieni a pranzo con me! Lui verrà con sua moglie… Sono solo con Jochen… e Jan. Marussa, tu sei figlia di architetti, tu solo puoi seguire i lavori, tu hai una mente organizzativa” e così mi coinvolse nella fase di tutta la ristrutturazione. Seguii i lavori su un progetto di CY Twombly uno dei suoi artisti di punta. La mia strada era segnata, un nuovo inizio ci sarebbe stato, certamente, e sarebbe stato con lui.

E l’inaugurazione?

Lui parlò di questa fase come di una purificazione tra la storia che aveva abitato il luogo e quella che l’avrebbe fatta vivere, con un gesto fondatore, una statua greco-romana come pièce unique. Ad ogni rottura doveva seguire una fase di purificazione quella che precede ogni nuovo inizio. Ritorna come leitmotif della tua vita questo desiderio di catarsi, di reset, direbbero ora, ma quale fu il vero inizio? La prima mostra fu dedicata a Daniel Buren che aveva appena finito le famose colonne del Palais Royal. Nell’89, subito dopo, e ci fu un grande malinteso per cui fummo investiti dall’aggressività di certi che addirittura sostenevano che Buren, grazie ai soldi di quella commessa di Stato, si era aperto la sua galleria personale. Certo il quartiere aveva una vocazione d’arte moderna, quasi non esisteva il concetto di arte contemporanea.

A proposito di questa “linea di separazione”, mi racconti di nuovo quel tuo aneddoto sullo stato dell’arte di cui sei stata testimone all’epoca della tua collaborazione con Lucio Amelio?

In una fiera, un assistente storico di Lucio, ma proprio storico che faceva di tutto in galleria, da magazziniere a cura delle installazioni,  che faceva le casse per le spedizioni; ci trovavamo a Basilea per una fiera e una signora entrando fece: ah arte moderna! Arte contemporanea? E lui fece, no, signò che v’aggia spiegà, chesta è arte dei pazzi!